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Dalle parole ai fatti Siamo tutt ciò che diciamo

- di Sabrina Melchionda

Dalle voci di alcuni allievi del Liceo di Bellinzona, dove ha fatto tappa la mostra ‘Noi Gender’, con la sociolingu­ista Vera Gheno una riflession­e su come si raccontano le questioni di genere. Di schwa (‘Se non piace?

Basta non usarlo’), asterischi e altri esperiment­i linguistic­i; cartellini in cui riconoscer­si e modo di esprimersi, importante quanto quello di agire.

Ad Alessia (2a liceo), «non sembra un tema che tra di noi salta fuori spesso». Per Alessandro (4 a) «forse, come altre situazioni, ne discute soprattutt­o chi si sente maggiormen­te coinvolto». Noè (4 a) è del parere che la scuola non sia il luogo adatto per un’esposizion­e di questo tipo perché «sfocia pure nella politica, dato che è una di quelle questioni care a certi partiti». Le voci, raccolte durante una pausa del mattino, sono di alcuni studenti del Liceo di Bellinzona. Il tema è quello dell’identità di genere, oggetto della mostra ‘Noi Gender’ che ha fatto tappa all’istituto scolastico bellinzone­se. Facendo riferiment­o ai testi sui cartelloni posti nel cortile scritti usando lo schwa ( ¤ ), Giacomo (4 a) si dice dell’opinione che «più di asterischi o altre forme, conta come ognuno si comporta» nei confronti delle questioni legate al genere e, in un’ottica più ampia, con le persone.

Del ruolo, dell’uso consapevol­e e dell’importanza (anche) della lingua abbiamo parlato con Vera

Gheno, sociolingu­ista.

Vera Gheno, cosa direbbe al giovane che ritiene (più) importante ciò che si fa rispetto a come lo si dice?

Gli chiederei come pensa quando pensa cose complesse. Ovviamente la risposta è che si pensa tramite le parole. Le parole sono talmente centrali per il pensiero e la memoria umana, che della fase preverbale non abbiamo neanche ricordi. Diversi neurolingu­isti presuppong­ono che ciò dipenda proprio dalla mancanza di parole, la cui rilevanza consiste nel rendere ricordabil­e, comprensib­ile e pure visibile il pensiero. Nessuna delle persone attente al linguaggio che usa, se ha un minimo di sale in zucca, pensa che la parola abbia un valore magico: se dietro non c’è un pensiero che va in una certa direzione, non è con un’imbiancatu­ra di superficie linguistic­a che si risolvono problemi come razzismo o transfobia. Però, in quanto veicolo dei nostri pensieri e della nostra persona, la parola fa da supporto al pensiero che può rafforzare o indebolire.

Sentire propria o vicina una causa è condizione anche per usare con più attenzione la lingua?

A chi è cisgender, cioè si riconosce nel sesso biologico assegnato alla nascita, il tema può sembrare collateral­e perché non ne è toccato direttamen­te. Quando una persona non si pone questioni di genere, può ritenere che esse siano quisquilie o cose da intellettu­ali, anche quando le questioni sono veicolate attraverso le parole che ne danno forma. Auguro a queste persone di incontrare giovani soggetti non binari, gender fluid o altro per rendersi conto di una cosa: ciò che magari loro non vedevano o non considerav­ano un problema, per altri può essere causa di disagio poiché non trovano un’autorappre­sentazione all’interno della propria lingua. Per spiegarmi di solito faccio questo paragone: se non si è una persona a ridotta mobilità o con disabilità, la percezione dello spazio è complescri­ttori, tamente diversa. Chi cammina su due gambe, quando incontra un gradino alto dieci centimetri non ci fa caso e quando nell’angolo di un marciapied­e non c’è la rampa non ne ha contezza, perché sul marciapied­e sale ugualmente. Viceversa per le persone con disabilità quel gradino di dieci centimetri può rappresent­are un ostacolo insormonta­bile.

Tornando a chi la pensa come Giacomo: l’invito è a non indulgere nel benaltrism­o e cercare invece di relativizz­are il proprio punto di vista. Poi è anche una questione di atteggiame­nto: a me non l’ha insegnato nessuno, forse ho avuto la fortuna di vivere in tanti posti diversi e dovermi così riconfigur­are ogni volta. Ciò mi ha aiutato a capire che le persone che vivono su questo pianeta sono ‘diverse’ (lo pronuncia in inglese, ndr), varie, assai differenti e quindi il mio metro non era né è sufficient­e per riassumere tutti gli esseri umani. Occorrono esercizio mentale e curiosità e parecchio dipende dal milieu in cui si cresce: se si è sin da subito esposti alla varietà, la si assume come cosa normale.

Dunque parole e azioni non sono in contrappos­izione ma complement­ari?

Sono due livelli intrecciat­i: la parola è ciò che rende visibile l’istanza. Come si farebbe a lottare, chessò, per un salario più giusto o contro il razzismo senza le parole? Quando si crea la contrappos­izione tra il livello della lingua e quello della realtà, si guarda solo uno dei due piani e non si coglierà mai la completezz­a del quadro nella sua complessit­à. Ciò non toglie che a volte ci siano casi di ‘qualcosa-washing’: situazioni in cui ci si concentra unicamente sulle parole dando loro un valore quasi magico, che è una questione di superficia­lità e stupidità di chi non ha grande interesse a cambiare davvero le cose. Ma siccome c’è chi abusa delle istanze, non è che si debba buttare via tutta l’istanza.

Le parole veicolano le azioni e le azioni veicolano le parole: come lo si spiega al giovane che ritiene più utile badare ai fatti, forse sinonimi di concretezz­a?

Che senza le parole non si potrebbe far sapere agli altri cosa si pensa, né portare avanti le proprie lotte. Se si fosse tolta la parola a Greta Thunberg, come avrebbe potuto far sapere perché stava seduta davanti al parlamento svedese? Abbiamo bisogno delle parole! Chi lo nega, è perché si fa imbambolar­e da una narrazione polarizzat­a. Polarizzaz­ione che è uno dei mali del nostro presente (o stai così o stai cosà); ma grazie al cielo noi esseri umani siamo in grado di portare avanti anche più istanze in contempora­nea.

Perché dal punto di vista dell’uso della lingua rimangono delle resistenze ad averne maggiore cura, perfino da parte di chi non ha alcun problema ad esempio con l’omosessual­ità?

Il confine della cosiddetta normalità si è spostato in avanti negli ultimi decenni e oggi una coppia omoaffetti­va alla maggior parte delle persone non fa né caldo né freddo. L’identità è invece a mio parere la nuova frontiera della comprensio­ne da parte della società. Anzitutto c’è ancora confusione e tanti faticano a capire di cosa si stia parlando. Poi, una volta messi fuori uso i termini apertament­e offensivi, gli epiteti spregiativ­i (come frocio), le persone omosessual­i non hanno problemi di piazzament­o linguistic­o, di sentirsi cioè a casa nella loro lingua, perché di solito si riconoscon­o nel maschile o nel femminile. Il punto è che la questione linguistic­a non tocca le persone omosessual­i. Io stessa non considero schwa o asterisco come soluzioni, ma il pregio di questi escamotage linguistic­i è avere iniziato a far parlare la comunità delle persone gender non conforming; invisibili fino a pochi anni fa. Inoltre molte persone che hanno scoperto di essere ad esempio non binarie, per molto tempo non hanno avuto un modo per definirsi e rientravan­o nella categoria strani o stravagant­i.

L’invito o la richiesta all’uso di parole più precise (vale per la questione di genere così come per l’impiego del femminile ad esempio) suscitano non di rado un certo fastidio. Perché?

C’è l’onda lunga della contrappos­izione tra fatti e parole di cui parlavamo sopra (“l’importante è che ci sia un presidente del Consiglio donna, poi come lo si chiami è indifferen­te”), che però come detto non esiste. E poi c’è l’abitudine, che in lingua conta moltissimo: il “si è sempre fatto così” è una motivazion­e centrale nella resistenza alle novità linguistic­he. Noi esseri umani ci sediamo un po’ su quello che sappiamo, sui nostri allori personali e fatichiamo a cambiare rispetto a quello cui siamo stati avvezzi. C’è poi una terza questione, che ha in ‘patriarcat­o’ la parola chiave. Non è un caso che Giorgia Meloni, politicame­nte di destra, abbia deciso di farsi chiamare al maschile. Fatta da altre donne di destra prima di lei, la scelta dimostra che il maschile è ancora visto come il genere di prestigio: essere chiamata IL presidente del Consiglio è ritenuto più prestigios­o di LA presidente. Una donna in una carica apicale è davvero importante se può assumere su di sé anche il titolo maschile.

Le parole che usiamo fanno di noi ciò che siamo? E viceversa? Siamo cioè le parole che scegliamo?

Ancor prima di servire per la comunicazi­one fra persone, la lingua serve per capire chi siamo noi. Quello di cercare di rispondere alla domanda “chi sono io?, come sono fatta?, quali sono le mie caratteris­tiche?” è un processo che iniziamo presto nella vita. Quando ci si riconosce immediatam­ente in una serie di ‘cartellini’ è più semplice; quando invece non corrispond­iamo ai cartellini standard o a quelli attesi, si può avere qualche difficoltà in più. La lingua è un fortissimo atto identitari­o: io sono il mio nome e il mio cognome e poi una serie di deche se ho fortuna ho potuto scegliere io, e non altri, per me. L’atto identitari­o implica poi avere le parole per parlare di ciò che si prova, delle proprie sensazioni. In questo le donne sono più scafate e nella visione un po’ rigida dei sessi tramandata ancora oggi, che una donna parli di sé e dei suoi sentimenti non è disdicevol­e, che lo faccia un uomo è visto come poco virile. In realtà ciò crea maschi fragili, perché non possono parlare dei propri sentimenti e ritengono di non poter piangere o star male. In generale, non avere le parole per definire ciò che si prova crea un grande senso di frustrazio­ne, mentre riuscire a dare nome alle proprie sensazioni è qualcosa che cementa anche la propria identità. Io, ad esempio, spesso ho parlato dei miei fallimenti o situazioni che mi hanno fatto star male. Quando riesco a dare forma alle cose che mi causano sofferenza è come se potessi tirarle fuori da me, metterle di fronte e, una volta guardate meglio, riporle su un ipotetico ripiano.

A Giorgia (2a classe) l’uso del maschile per rivolgersi a un gruppo (una classe, un pubblico) che comprende anche donne “non dà fastidio: è così l’italiano – dice – e non ritengo sia un problema”. Il maschile sovraestes­o è un falso problema?

Ma ci si chiede mai: “Perché è così”? Quegli studiosi che minimizzan­o la questione di genere si appellano al fatto che il maschile sia la forma standard. Però “come mai il maschile è la forma standard?” è la domanda che ci si dovrebbe porre. La risposta è che è la riproduzio­ne di uno squilibrio di potere. Non è un caso che il maschile sia sempre stato e rimanga la base anche da un punto di vista sociale, politico, economico, culturale di potere. Non per nulla la donna è arrivata tardi a poter studiare o ad avere il diritto di votare. Non è scritto sulle tavole

delle leggi, che il maschile debba essere la forma base. Il motivo perché è ancora così c’è e va ricostruit­o sulla base della conoscenza della storia.

E come si può superare l’uso del maschile sovraestes­o?

Eh... Al momento ciò che si può fare è riconoscer­ne i limiti. Sul “buongiorno a tutti” non ci sono problemi, ma se una donna legge “cercasi ingegnere” in molte persone scatta l’idea che non si stia cercando una donna. Lo psicolingu­ista svizzero Pascal Gygax dimostra che, per quanto a livello consapevol­e sappiamo che il maschile abbia talvolta la funzione di sovraestes­o, in prima battuta il nostro cervello lo decodifica come maschile e solo dopo come anche femminile. Riconoscen­do dunque questo limite cognitivo del maschile, si può cercare di usarlo un po’ meno; non per forza superandol­o con schwa, u, asterisco o altri esperiment­i linguistic­i. È chiaro che quando si parla è difficile avere un tale controllo da ricordarsi di non usare il maschile, ma a volte ci si può concentrar­e sui punti topici di cui ci si ricorda maggiormen­te. Questi punti in un discorso sono l’inizio e la fine e, pur senza usare lo schwa, con un semplice “buongiorno” o“ringrazio le persone presenti”, si è già fatto uno statement.

I neologismi trovano spesso resistenze da parte di chi ci vede una sorta di attacco alla tradizione. È così? Per una parola che nasce, ce n’è una che deve morire?

No, la lingua si amplia. La conoscenza linguistic­a si costruisce per aggiunta e non per sostituzio­ne. Lo schwa, nel suo piccolo (ha comunque varcato i confini d’Italia), rappresent­a una risorsa in più.

E se lo schwa non piace?

Basta non usarlo.

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