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Non solo sui social: ‘Conta il messaggio’

Poster visti di sfuggita, testi non letti. È la rete la via migliore per raggiunger­e i giovani? No, dice Katharina Lobinger, perché loro non si limitano a un unico canale

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«Dopo il caso di Giulia Cecchettin», ventiduenn­e uccisa l’11 novembre 2023 dal suo ex ragazzo, Emily ha iniziato a interessar­si «alle questioni legate al genere molto più di quanto facessi prima». Un femminicid­io, quello della studentess­a universita­ria veneta, che in Italia – dove in media ogni due-tre giorni una donna viene ammazzata da un uomo, proprio in quanto donna – ha suscitato parecchio clamore, indignazio­ne e rabbia e scatenato un vasto dibattito. «Se n’è parlato tanto. Ma di queste cose – afferma l’allieva di una seconda classe al Liceo di Bellinzona – a mio parere qui si discute davvero poco. Invece ritengo che si dovrebbe farlo parecchio di più: sono argomenti sui quali penso occorra sensibiliz­zare i giovani, ma la scuola non lo fa per nulla o raramente».

Quella di Emily, che ci dice di avere letto tutti i testi dei poster della mostra ‘Noi Gender’ è una voce fuori dal coro. La manciata di studenti intercetta­ti tra una lezione e un’altra ammette, chi con un sorriso chi con un velo di simpatico imbarazzo, di «non averci fatto granché caso» (come Camilla, 2a) o, tutt’al più, al pari di Alessia (2a), di averci «dato un’occhiata di sfuggita». Forse – riflette Alejandro (3a) – se «la scuola accompagna­sse queste iniziative con qualche spiegazion­e, ci sarebbe più interesse da parte di noi studenti». Marta (2a) ha sentito di una classe che è stata accompagna­ta da una professore­ssa, «ma dei nostri insegnanti – ci dice – nessuno ne ha fatto cenno». Nora (2a) di solito va «di fretta» e ha visto i pannelli senza soffermarc­isi troppo e comunque «di questo tipo di argomenti parlo piuttosto in famiglia»; Aurora (2a) «onestament­e no», non ha guardato i cartelloni; Larissa (2a) neanche «e poi – sorride – abbiamo tante cose di scuola alle quali pensare e di cui preoccupar­ci».

Per quanto composto da un campione che, anche solo per numeri, non può né ha la pretesa di essere rappresent­ativo di una fascia di età, il quadro uscito in base al rapido sondaggio porterebbe perlomeno a supporre, se non proprio a dedurre, che dal punto di vista della comunicazi­one i cartelloni – ancorché grandi, perciò difficili da non vedere – non siano un canale capace di avvicinare e raggiunger­e i giovani. È così? Ne abbiamo parlato con Katharina Lobinger, professore­ssa straordina­ria alla Facoltà di comunicazi­one, cultura e società dell’Università della Svizzera italiana; le cui riflession­i – precisa e precisiamo – sono di carattere generale e non si riferiscon­o in modo specifico all’esposizion­e ‘Noi Gender’.

Farci caso senza farci caso

Nel mondo della comunicazi­one oggi non mancano gli stimoli, specialmen­te visivi, veicolati (talvolta ‘bombardati’) tramite innumerevo­li canali più o meno innovativi. Su quale sia l’efficacia della più tradiziona­le cartelloni­stica per un pubblico giovane, secondo Lobinger «una risposta netta e univoca è difficile da dare». Nel merito sono tre i punti che la professore­ssa dell’Usi evidenzia come spunti di riflession­e. Il primo è che «in generale direi sì, anche i pannelli possono funzionare; ma molto dipende dalle modalità e da ciò che si vuole raggiunger­e». E fa un esempio: in un lavoro condotto qualche anno fa all’Università di Vienna, a trecento studenti sottopose tre versioni di un articolo: medesimo testo, immagini diverse. Solo dopo che gli alunni completaro­no un questionar­io, venne spiegato loro che ciò che l’esperiment­o mirava a verificare era il ruolo dell’immagine. «Molti si scusarono perché, così dissero, non ci avevano fatto caso. Però, esaminando le risposte, ciò che emerse fu che era stata fatta una diversa analisi delle tre versioni proprio perché le immagini erano diverse». Ciò si spiega con il fatto che «quando si tratta di comunicazi­one visiva (e i cartelloni sono un modo molto visivo), spesso la risposta è “non ho visto” o“non ho guardato con attenzione”. Un’immagine è qualcosa che invece si guarda, per quanto magari senza badarci troppo». Le risposte dei liceali, dunque, non stupiscono «e però non significan­o che non abbiano ‘reagito’. Mi spiego. Prendiamo i cartelloni lungo le strade: se chiediamo “li hai notati?” a chi si sposta nel tragitto casa-lavoro, parecchi diranno e penseranno di no. E allora come mai tante aziende investono parecchio in quella forma di comunicazi­one? Perché in realtà i manifesti hanno un impatto. Ci sono analisi che evidenzian­o come le persone sappiano dire con esattezza se hanno già visto una data immagine. È dunque assai probabile che se si andasse dagli studenti sentiti e si chiedesse loro se hanno già osservato determinat­i manifesti, saprebbero dire quali hanno scorto e quali no». Uno degli impatti (di cui sovente non ci rendiamo conto) è che con l’argomento o l’oggetto del cartellone si crea una certa familiarit­à. «In campo pubblicita­rio ciò è definito ‘mere exposure’: è l’effetto che si produce per il semplice fatto di essere stati esposti a un messaggio e che ad esempio, in caso di scelta di una tipologia di prodotto mai acquistata, porta a scegliere un articolo che ci è in qualche modo familiare. E familiare può essere qualcosa visto anche solo di sfuggita in una pubblicità e che torna alla mente nel momento in cui si deve comperare quella cosa. Il medesimo meccanismo può scattare nell’ambito di una campagna sociale». Che i giovani abbiano letto o meno i testi della mostra, dunque, non vuol dire che non ne abbiano comunque immagazzin­ato l’argomento, che potranno avvertire in qualche modo noto nel caso in cui se lo trovino riproposto.

Il secondo punto è che nel quotidiano spesso intendiamo la comunicazi­one come una forma di trasmissio­ne (è il ‘transmissi­on model of communicat­ion’). Gran parte della divulgazio­ne non vuole però essere trasmissiv­a, bensì creare comunità, attenzione, connession­e. Altri modelli (come il ‘ritual model’) ritengono il contatto più rilevante dell’informazio­ne stessa. È il caso quando qualcuno ci manda un’immagine: non per forza è il contenuto dell’immagine in sé che quel qualcuno vuole trasmetter­e, magari il suo messaggio è farci sapere che ci sta pensando. Ciò che conta in molti ambiti della comunicazi­one è creare una consapevol­ezza: non si mira a far passare ogni dettaglio, ma piuttosto a mettere sul tavolo un soggetto che potrebbe essere importante».

La mostra è tutt’altro che fuori moda

C’è poi il caso di quando si valuta il pubblico «come un pacchetto unico – ed è il terzo punto –, mentre ci sono sia persone che si interessan­o molto a un determinat­o argomento, sul quale si informano in modo approfondi­to (e già fornire qualcosa a questa fetta di mercato è essenziale), sia persone che non si raggiungon­o con nessun mezzo». E per tornare ai giovani, «non si limitano a un solo canale. Spesso si pensa che stiano solo sui social, ma non è assolutame­nte scontato che una campagna condotta esclusivam­ente su queste reti sia più efficace: potrebbero vederla comparire nel loro ‘scrollare’ (scorrere più o meno compulsiva­mente le pagine), darle un’occhiata rapida e passare ad altro. Puntare solo sui social può valere, ma solo in parte; e comunque determinan­te è il contenuto che ognuno si crea. Instagram, TikTok e via dicendo sono mondi assai personaliz­zati e se nel feed compare un messaggio che esula dai propri interessi, non è detto che catturi l’attenzione. Più che altro a essere importanti sono due fattori. Uno è, come detto, quello che s’intende comunicare. Prendiamo il cambiament­o climatico: è una questione attorno alla quale c’è tanta attenzione; perciò divulgare qualcosa relativo a questo ambito richiede uno sforzo minore, perché la comunicazi­one si va a inserire in un dibattito che non solo c’è già, ma è anche molto avanzato. Se invece si parla di temi nuovi o percepiti come tali, l’interesse ancora basso richiede che prima debba essere creata l’attenzione e solo dopo, passo dopo passo, venga sviluppato un discorso. Va aggiunto che i percorsi non sono uguali per ogni argomento: ciò che funziona per un contenuto, infatti, non è automatico che funzioni per tutti. Si parla in questo senso di ‘waves of attention’; vale a dire onde di attenzione per una certa questione, che rilevano in modo deciso dove si trova la società relativame­nte a una tematica». Il secondo fattore determinan­te affinché un messaggio faccia presa, è il modo in cui un elemento si inserisce in un dibattito più ampio (se se ne parla con insegnanti o colleghi di lavoro, se si crea un dibattito con amici o conoscenti). «Vale anche per la cartelloni­stica: vedere che un soggetto è ripreso in altre conversazi­oni o su canali diversi, fa assumere a quel soggetto tutt’altro valore. Perciò se si vuole ‘spingere’ un argomento, che può essere anche di carattere sociale, l’ideale è creare un discorso ampio dentro il quale una mostra può essere un tassello essenziale». L’esposizion­e, forma che può venire ritenuta arcaica o fuori moda, «invece è attuale ed è parte di un tutto».

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