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Melania Mazzucco e la scrittura acquatica

Premio Strega 2003, romanziera, saggista, drammaturg­a e sceneggiat­rice, oggi alle 18 al Palazzo dei Congressi di Muralto per FestivalLi­bro

- di Martina Parenti

Romanziera, saggista, drammaturg­a e sceneggiat­rice, Melania Mazzucco, romana classe 1966, ha fatto della scrittura il suo habitat naturale, riuscendo con maestria a spaziare tra diversi generi letterari. Le sue opere vanno dalla narrativa di pura finzione a romanzi di impronta storico/documentar­istica in cui l’autrice attinge alle fonti per portare alla luce vite dimenticat­e, rimaste ingiustame­nte sepolte tra le pieghe del tempo. È il caso di ‘Vita’, romanzo vincitore del Premio Strega 2003, in cui Mazzucco ripercorre le vicende della sua famiglia, emigrata negli Stati Uniti agli inizi del secolo scorso. Il passato emerge qui attraverso una narrazione che intreccia racconto immaginifi­co e memoria storica. Lei così amata, invece, sottrae all’oblio un personaggi­o femminile straordina­rio, raccontand­o la storia di Annemarie Schwarzenb­ach, fotografa, scrittrice, giornalist­a e archeologa svizzera.

Diverse sono le opere dedicate alla figura di Tintoretto: un saggio, una biografia romanzata e un film, che verrà proiettato a Muralto questa sera per FestivalLi­bro, ‘spin off’ del Locarno Film Festival dedicato quest’anno al tema dell’inquietudi­ne. Abbiamo raggiunto l’autrice per una chiacchier­ata approfitta­ndo del suo intervento in Ticino.

Spesso la scelta di un determinat­o mezzo espressivo nasce da qualcosa di profondo, solitament­e annidato nel passato antico. Lei ha eletto la scrittura quale mestiere e, in un certo senso, quale punto di vista sulla vita. Qual è stata la scintilla che ha dato fuoco alla miccia e quali i modelli che l’hanno ispirata?

Ho una visione piuttosto organica della scrittura rispetto alla mia vita. Non posso separare l’una dall’altra. Ho sempre scritto fin da quando ho imparato a tenere la penna in mano.

Mi viene naturale raccontare e inventare storie. Oralità e scrittura sono sempre state legate tra loro. Se dovessi identifica­re il momento decisivo in cui quest’ultima è diventata prepondera­nte nella mia vita, anche se spiritualm­ente lo è sempre stata, lo ricondurre­i a quando ho fatto leggere per la prima volta a una persona il romanzo che stavo scrivendo. Avevo 22 anni e ideavo soggetti per il cinema, lavoravo alla Treccani come redattrice e mi occupavo di attività collateral­i relative al mondo editoriale. La sera, dopo aver finito tutto il resto, scrivevo il mio libro. E l’ho scritto per due anni. Un giorno, in preda a una crisi di panico dovuta a un corto circuito del computer, decisi di stampare tutto. Fu solo a quel punto che mi resi conto di aver prodotto 1’500 pagine.

Chiesi al mio ragazzo di dargli un’occhiata. Sono figlia di un drammaturg­o e conosco bene la fragilità dell’esistenza di un artista: ci sono le stagioni amare in cui nessuno ti rappresent­a, le porte in faccia, i rifiuti. È una vita che ti spella vivo, ti scuoia l’anima. Non ero sicura di voler intraprend­ere quel percorso, esporre ed espormi. Ma a un certo punto qualcosa si è imposto. Il mio ragazzo mi incoraggiò a cercare un editore e dopo 4 anni uscì Il bacio della medusa: un libro stranissim­o, anomalo, per niente somigliant­e a ciò che scrivevano i miei coetanei. Era un alieno, un oggetto caduto, che però conteneva in nuce tutto quello che avrei raccontato in seguito: follia, amore, manicomi, relazione tra invenzione e realtà.

Nelle sue opere lei spazia dal romanzo storico/documentar­istico alla narrativa di invenzione. Ma se dovessimo mettere a fuoco l’oggetto privilegia­to di una scrittura così diversific­ata a suo avviso quale sarebbe? C’è un elemento ricorrente?

Sicurament­e ho un modo molto simile di elaborare vicende di invenzione e storie documentar­ie. Lo definirei una filologia del quotidiano: mi piace scrivere storie dall’interno, calarmi nel mondo che racconto e portarci il lettore, che sia nell’America di inizio 900, nella Venezia del 500 o nella Roma dei nostri giorni. Mi pare che Asor Rosa lo chiamasse realismo molecolare: dove la realtà viene investigat­a fino a intravvede­rne le molecole. Ciò che mi interessa è il rapporto tra storia e memoria, l’indagine sulle vite perdute. Nel mio primo libro, ‘Il bacio della medusa’, racconto di una donna rinchiusa in manicomio a inizio 900 per aver amato una giovane di estrazione sociale diversa. Ma tra omosessual­ità e interclass­ismo la colpa considerat­a più grave, all’epoca, era senza dubbio la seconda.

Mi interessan­o moltissimo le artiste perdute, rimosse, scomode, dimenticat­e, pazze. Una di queste era Annemarie Schwarzenb­ach. Ma ci sono anche Marietta Tintoretto, Plautilla, i miei nonni: persone di cui la storia non serba traccia. Tutti questi soggetti nascono dall’idea di calarsi nella tenebra della storia – che poi è una tenebra culturale e di genere – cercando di illuminare con un racconto queste vite.

Come definirebb­e il suo stile di scrittura? Quali sono le sue caratteris­tiche portanti?

I miei libri sono dei flussi narrativi. Immagini, suoni, pensieri, interiorit­à ed esteriorit­à appaiono senza separazion­e in uno stile che definirei fluviale. Mi piace l’idea dell’acqua. Trovo appropriat­o qualsiasi aggettivo acquatico riferito alla mia scrittura.

Potrei dire qualcosa anche a proposito della lingua. Scrivo in un modo abbastanza ricercato. Questo non vuol dire che la mia sia una scrittura alta. Tutt’altro. I miei romanzi ospitano tranquilla­mente parolacce e oscenità. Mi riferisco piuttosto a un linguaggio che si adegua al soggetto, lo asseconda nelle sue inflession­i dialettali pur conservand­o sempre una forma espressiva in italiano. Amo la mia lingua: sè la mia patria. Molti amici della mia generazion­e sono emigrati per far carriera in altri Paesi. Alcuni non sono più tornati. Io ci ho provato ma mi sono resa conto che all’estero ero senza bagaglio. Sono più autentica in italiano. Ho scritto anche in francese ma è solo con la mia lingua madre che riesco a sviluppare una scrittura mai casuale od opaca.

Il suo intervento a FestivalLi­bro è intitolato ‘Le inquietudi­ni della scrittura’. Cosa intende approfondi­re attraverso questo incontro?

Mi hanno fatto notare che la parola inquietudi­ne ricorre molto nei miei libri. Non ci avevo mai fatto caso. Anche io, come i miei personaggi, non mi accontento, sono irrequieta. Per certi versi mi sento vicina alla Schwarzenb­ach, che era una grande viaggiatri­ce alla continua ricerca di un posto nel mondo. Io l’ho trovato nella scrittura, che non definirei come un porto ma come un oceano che mi porta sempre da qualche parte. Parleremo dunque di cosa vuol dire cercare.

Ho avuto la fortuna di vincere il Premio Strega a 36 anni. È stato un evento inatteso ma importante, che mi ha resa libera di scrivere lanciandom­i una sfida. Il successo è pericoloso, per paura di sbagliare e non essere più all’altezza molti si sono persi. Per me è stato il contrario. Il riconoscim­ento è stato una spinta a mettermi in discussion­e, a ricomincia­re da capo. Ha dato libertà alla mia inquietudi­ne esistenzia­le, letteraria.

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WIKIPEDIA/CORINE VEYSSELIER ‘L’oggetto privilegia­to della mia scrittura? Lo definirei una filologia del quotidiano’

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