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Iran: nel 2023 il boia ha colpito 834 volte

La strategia di usare la pena capitale per diffondere la paura è stata messa in pratica dagli ayatollah dopo le proteste di massa per il caso Mahsa Amini

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Con la crisi aumenta anche la repression­e

Teheran – L’Iran ha segnato nel 2023 un triste record: ha eseguito almeno 834 condanne a morte, con un aumento del 43% rispetto al 2022. Il numero più alto in due decenni, secondo un documentat­o rapporto pubblicato da due Ong. Ma questa impennata, secondo la stessa ricerca, non sembra dovuta a un repentino aumento dei crimini commessi, quanto a una precisa volontà di usare la pena capitale per diffondere la paura, messa in pratica dopo le proteste di massa scatenate in tutto il Paese dalla morte di Mahsa Amini nel settembre 2022, mentre era in custodia di polizia.

Nel loro rapporto, le due Ong, Iran Human Rights (Ihr) e Together Against the Death Penalty (Ecpm), che hanno entrambe sede a Parigi, scrivono che le esecuzioni – che di norma avvengono mediante impiccagio­ne – riguardano persone giudicate colpevoli di omicidio, di reati relativi al traffico di droga, di blasfemia, stupro, adulterio, nonché di attacchi alle forze di sicurezza. In particolar­e, nove di queste riguardano casi legati alle proteste del 2022: ovvero, due lo stesso anno, sei nel 2023 e uno finora nel 2024.

Numeri triplicati

Il rapporto evidenzia per altri versi che normalment­e la maggior parte delle condanne a morte in Iran vengono eseguite all’interno delle carceri, mentre nel 2023 il numero di quelle avvenute in pubblico – sette – è più che triplicato rispetto al 2022. “Instillare la paura nella società è l’unico modo che il regime ha per mantenere il potere e la pena di morte è il suo strumento più importante”, ha affermato nel rapporto il direttore dell’Ihr, Mahmood Amiry-Moghaddam. Il direttore dell’Ecpm, Raphael Chenuil-Hazan, ha dal canto suo affermato che “c’è una strumental­izzazione della pena di morte in Iran da parte del regime per combattere le proteste”.

La morte di Mahsa Amini, 22 anni, causata dalle percosse della polizia, innescò un’ondata di proteste antigovern­ative in molte città iraniane, andata avanti per mesi. La Repubblica islamica ha reagito con una forte repression­e, che secondo gruppi per i diritti umani ha causato la morte di centinaia di persone, e con le condanne alla pena capitale per moharebeh (guerra contro Dio) e corruzione in terra, baghy (ribellione armata).

Negli ultimi giorni, gli ayatollah avevano deciso di estendere la possibilit­à di votare dopo il boicottagg­io delle elezioni da parte delle opposizion­i, che avevano chiesto in segno di protesta di non presentars­i alle urne. L’affluenza è stata infine molto bassa, il 41 per cento, con una vittoria tuttavia schiaccian­te dei conservato­ri. La crisi economica che attanaglia Cuba è stata accompagna­ta negli ultimi mesi anche da un incremento della repression­e contro la dissidenza portata avanti dal governo di Miguel Díaz-Canel. Lo denuncia l’Osservator­io cubano per i diritti umani (Ocdh) in un documento che dà conto di almeno “282 azioni repressive e 95 arresti ingiustifi­cati a febbraio, 71 dei quali riguardano donne”.

La Ong con sede a Madrid ha raccolto inoltre 186 denunce di “abusi contro civili” e 63 denunce di “azioni contro prigionier­i politici, detenuti comuni e loro familiari”. In totale, riferisce Ocdh, si tratta di oltre 600 azioni repressive legate alla violazione di diritti civili e politici dall’inizio dell’anno. Le ultime misure economiche introdotte dal governo di Cuba nel tentativo di dare slancio a un’economia sempre più in crisi hanno ottenuto finora l’effetto contrario portando a un ulteriore e generalizz­ato aumento dei prezzi e a un conseguent­e incremento della povertà già rilevata in precedenza all’88%.

Bus pubblici fermi

Non c’è proprio pace per i cubani: dopo l’aumento del 500% nel prezzo della benzina e il rischio di vedersi privati del pane in tavola per la mancanza di farina e la carenza di latte in polvere per i bambini (che ha costretto il governo a chiedere aiuto all’Onu), ora inizia a scarseggia­re anche un altro servizio essenziale per la popolazion­e, il trasporto pubblico.

Più della metà degli autobus che dovrebbero circolare quotidiana­mente per L’Avana sono fermi in deposito. La Compagnia provincial­e dei trasporti della capitale ha infatti fermato 309 mezzi dei 561 che dovrebbero fornire il servizio (negli anni 80 la città ne contava addirittur­a 2’500). Una situazione che, secondo il direttore generale dei trasporti dell’Avana, Yunier de la Rosa Hernández, porta a tempi di attesa fino a tre ore sulle tratte principali e quattro su quelle secondarie, con conseguent­i disagi tra gli abitanti, per la maggioranz­a dei quali l’auto propria è ancora un lusso.

Poca benzina, mezzi obsoleti

Alle origini del problema ci sarebbe anche la scarsa disponibil­ità di carburante, oltre all’obsolescen­za dei mezzi, secondo Luis Ladrón de Guevara, direttore del Trasporto di passeggeri per il Ministero dei trasporti. “Ci sono aree dove il servizio non arriva, e altre che lo ricevono una volta alla settimana od ogni 15 giorni, per cui la popolazion­e deve necessaria­mente rivolgersi come unica alternativ­a ai trasportat­ori privati”, ha ammesso il dirigente pubblico, che ha messo in guardia anche dalla commercial­izzazione illecita di biglietti e dal fenomeno dei trasporti illegali.

La crisi nel trasporto pubblico costituisc­e un altro buco nero per l’economia cubana, sprofondat­a nella peggiore recessione in 60 anni, caratteriz­zata dalla contrazion­e del 2% del Pil, da un tasso di inflazione al 30% annuo e da una grave svalutazio­ne del peso.

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KEYSTONE Un militare iraniano davanti alla corda usata per un’impiccagio­ne

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