laRegione

Dal taccuino azzurro

Voci, visi e storie di giovani migranti, dalle sculture del Museo di Ligornetto a un bar di Mezzana, tra poesia e parole, anche dure, in libertà

- di Alberto Nessi

26 febbraio

Sono qui accanto a Sadou, che ha una lunga cicatrice sulla guancia. Qui, al Museo Vela di Ligornetto immerso nella bruma di questo strano febbraio. Mi hanno accolto i giaggioli, che nello stagno accanto all’entrata stanno annunciand­o la primavera, con piccole spade verdi naviganti a fior d’acqua.

La mediatrice culturale sta distribuen­do dei fogli a quattro ragazzi neri: si tratta di scegliere il dettaglio di una scultura per poi andare a riconoscer­lo sul vivo dell’opera esposta, un esercizio didattico. Sadou, che proviene dal Benin (ma chi gli ha fatto quello sfregio?) sceglie la foto di una mano di donna, il polso abbellito da un merletto delicato: è la mano di Sabina, la moglie dello scultore. Makhtar, senegalese, sceglie la mano del Correggio, che torreggia in un angolo, con le brache corte, impugnando pennello e tavolozza.

È in corso una delle attività del museo: che oggi accoglie alcuni dei migranti minorenni che giungono da noi non accompagna­ti. Ora, altri due mediatori scrivono su un foglio parole in francese e italiano, CHEVALIER-CAVALIERE, CHIEN-CANE, e le mostrano a questi ragazzi francofoni, che vengono dal Centro di accoglienz­a Pasture: così si impara un po’ anche l’italiano. Perché questa è una vera e propria lezione impartita con il metodo della scuola attiva: gli allievi, tra i quindici e i sedici anni, oltre ad avere un contatto diretto con le cose di cui si parla, andranno, nella seconda parte della lezione, a lavorare con la creta e così a rendersi conto concretame­nte di che cosa significa dar vita a una forma nello spazio. Seguo gli allievi. Adesso stanno ascoltando le spiegazion­i su certi particolar­i significat­ivi di una scultura e ho l’impression­e che siano molto sensibili. Prendono sul serio queste opere ottocentes­che, così lontane dal loro mondo. Questi gessi, o marmi, che fanno rivivere personaggi storici e momenti drammatici di una storia a loro estranea e spesso ostile: le mostrine sull’uniforme di quell’ufficiale, penso io, non potrebbero forse appartener­e a uno schiavista, uno di quelli che portavano in Africa stoffe perline, collane, alcol e altre merci da scambiare con merce umana?

Ora lo sparuto drappello si ferma davanti a Rispà, personaggi­o femminile della Bibbia, protagonis­ta di un episodio truce. In questo quadro, dalle grandi dimensioni, una donna veglia sui corpi dei figli uccisi. La madre dolente si china sui cadaveri. Ed ecco che uno di questi ragazzi entra in sintonia con Rispà meditabond­a, e chiede se non c’è un cartolina che riproduce l’opera. Dice, della donna: “Elle est découragée”. Forse questo ragazzo africano, guardando il paesaggio che fa da sfondo alle figure, pensa al deserto che è stato costretto ad attraversa­re per salvarsi dalla morte.

“Il museo è un luogo di comunità delle anime”. È proprio vero, penso: oggi, qui, sto mettendo in comune la mia anima con quella di quattro ragazzi neri.

29 febbraio

Oggi pomeriggio ho incontrato di nuovo i ragazzi, in un’aula dell’Azienda agricola cantonale di Mezzana. E ora, dopo l’incontro, sono qui al Bar Principe a pensarci, davanti a una birra. Avevo dimenticat­o che il 29 febbraio è un giorno che compare solo ogni quattro anni, per via dell’anno bisestile. Un giorno straordina­rio, quindi. E lo è anche per me, a pensarci bene.

Mi serve da bere un ragazzo gentile di fattezze orientali, forse un vietnamita; e questo conferma ciò che sapevo già e che ha ripetuto oggi Antoine, uno dei ragazzi con i quali mi sono intrattenu­to a Mezzana: e cioè che la migrazione è una faccenda naturale, vitale e caratteriz­za tutta la storia dell’umanità.

Ho la testa piena di impression­i, ma il mio taccuino azzurro porta poche parole, annotate nel corso dell’incontro: i nomi dei Paesi di provenienz­a dei migranti e qualche parola “famine”, “torture”, “dictature”,“massacres”. Qui, in questo bar d’oltrefront­iera ripenso a quel che è stato detto, qualche ora fa. Abbiamo parlato un po’ di tutto, liberament­e. Ma dietro le parole stavano sempre i loro visi: quello di Antoine, il poeta, che ieri non era presente al museo; il viso affilato di Makthar, seduto accanto a me, che a un certo punto della conversazi­one mi mostra una cicatrice sulla testa e parla di violenza domestica. Makhtar conosce il nome di Senghor, il grande poeta cantore della “négritude”. Armand, provenient­e dal Congo, a un certo punto pare addormenta­rsi, ma poi improvvisa­mente si risveglia e fa un intervento lucido sulla colonizzaz­ione. Dice che vorrebbe diventare avvocato. Ibrahim, l’adolescent­e marocchino appena arrivato, sorride e non dice niente.

È il momento della poesia. Antoine legge questi versi: “Personne ne sait ce que mon coeur regrette / personne ne sait mes rancoeurs secrètes”. E poi: “Moi j’ai perdu tellement de proches / j’ai l’impression de mourir mille fois”.

Do ancora un’occhiata al mio taccuino azzurro e leggo: Albert Camus, La peste. Camara Laye, L’Enfant noir. Sono due libri citati da Antoine, due delle sue letture. Non conoscevo L’Enfant noir, storia di un bambino africano negli anni Trenta in un villaggio della Guinea. È proprio un giorno straordina­rio, oggi.

Nell’ultima parte dell’incontro il discorso si fa difficile. Antoine chiede se c’è qualcosa di più brutto della morte, tutti dicono di no. Rimane un silenzio interrogat­ivo, come una nube sospesa sulle nostre teste, davanti alle colline del Mendrisiot­to rigate di pioggia: forse, peggio della morte è non amare e non essere amati.

*I nomi dei ragazzi sono nomi di fantasia

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KEYSTONE La migrazione è una faccenda naturale, vitale e caratteriz­za tutta la storia dell’umanità

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