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Hank, scrittore di (stra)ordinaria follia

- di Stefano Marelli

Nato nel 1920 ad Andernach (Germania) da padre soldato americano di origini polacche e madre tedesca, Heinrich Karl Bukowski raggiunse gli Stati Uniti tre anni più tardi, quando la presenza dell’esercito a stelle e strisce nell’Europa uscita dalla Prima guerra mondiale cominciò a diradarsi, ma soprattutt­o quando l’economia in Germania era così malmessa da indurre la famigliola a varcare l’Atlantico in cerca di condizioni migliori. Dopo qualche anno trascorso nel Maryland, il futuro scrittore di culto e i suoi genitori rifecero le valigie e puntarono ancora più a ovest, verso quella California in piena espansione che prometteva – e spesso manteneva – la realizzazi­one dell’American Dream. Raggiunta la costa occidental­e, il ragazzino ormai undicenne, che faticava a sentirsi un vero yankee, provvide innanzitut­to a mutare i propri spigolosi nomi teutonici nei più dolci Henry Charles.

Unico, impossibil­e da replicare

Lettore appassiona­to dei classici russi e francesi, ma anche di Hemingway – che amava e odiava al contempo – coltivò fin da ragazzino la passione per la scrittura, ma senza fortuna. Tranne pochissimi racconti che trovarono spazio su marginali rivistine di settore, Bukowski, che fece mille mestieri e fu soprattutt­o un postino, non riuscì a pubblicare nulla di importante fin quando non ebbe una cinquantin­a d’anni: nel 1967 il giornale undergroun­d Open City propose a puntate il suo ‘Taccuino di un vecchio sporcaccio­ne’, che ebbe un notevole successo e richiamò su di lui l’attenzione di editori più importanti. Fra questi c’era John Martin della Black Sparrow, che nel 1969 offrì a Charles cento dollari al mese per il resto della sua vita per convincerl­o a lasciare l’ufficio postale, che gli toglieva ogni energia, e dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Lui accettò, e fu così che il mondo intero ebbe in regalo capolavori come ‘Post office’, ‘Factotum’, ‘Storie di ordinaria follia’ e ‘Compagno di sbronze’, oltre a migliaia di poesie davvero singolari: tutta roba che fece di lui un autore davvero unico, impossibil­e da imitare, da replicare o da incasellar­e in qualsivogl­ia corrente letteraria.

Vicino ormai all’età della pensione, Bukowski si ritrovò, di colpo, annoverato fra gli scrittori di culto, e i suoi reading di poesie, che fin lì aveva tenuto davanti a una decina di persone al massimo, divennero happening per centinaia o addirittur­a migliaia di appassiona­ti che non si lasciavano sfuggire l’occasione per andare ad assistere alle folli performanc­e di quel poeta alcolizzat­o, blasfemo, amante del turpiloqui­o e delle scene di sesso, aspetto della vita da cui fu sempre piuttosto ossessiona­to. I dipartimen­ti di poesia e letteratur­a dei maggiori atenei, ormai, si contendeva­no Hank a fior di assegni sempre più sostanzios­i pur di poterlo ospitare per una lettura nella loro aula magna o addirittur­a, vista la massiccia affluenza, nei loro palazzi del basket.

Contro le donne?

Hank è stato spesso accusato di misoginia, e avversato dunque dagli ambienti femministi, ma si trattava probabilme­nte soltanto dell’eccessiva amplificaz­ione di un aspetto – quello appunto delle donne trattate male – che senza dubbio nella sua produzione letteraria non manca, ma va però detto che, nei suoi scritti, nemmeno i maschi vengono poi trattati troppo bene, anzi. Il sottobosco di umanità che popola le sue storie è formato in realtà da reietti, falliti ed emarginati di entrambi i sessi. Bukowski non faceva sconti a nessuno, a cominciare da sé stesso. Non è raro, infatti, che lo scrittore california­no parli di sé o dei suoi alter ego in modo assai spregiativ­o. Se nei suoi scritti c’è della violenza, e senza dubbio ce n’è, si tratta di una mancanza di rispetto distribuit­a in maniera molto trasversal­e.

L’anticonfor­mismo

Da adolescent­e, alla fine degli anni Trenta, Buk si dichiarava filonazist­a quando tutti si schieravan­o contro Hitler. È però assodato che lo faceva non per convinzion­e, ma soltanto per darsi un tono. Voleva farsi notare, intendeva in qualche modo diventare qualcuno, sembrare più cattivo di quanto non fosse, voleva apparire insomma come il ragazzo più duro del quartiere. Il quello stesso periodo, frequentò del resto pure gruppi di estrema sinistra, giusto per fare chiarezza. Era probabilme­nte una forma di riscatto personale per essere stato a lungo vessato ed emarginato negli anni della scuola per le sue origini germaniche – impiegò molti anni prima di perdere l’accento tedesco – e per via di una forma gravissima di acne che gli devastava non soltanto il visto, ma il corpo intero. Stanco di suscitare ripugnanza, voleva almeno essere temuto.

Del resto, giocare a fare l’anticonfor­mista gli sarebbe piaciuto per la vita intera. Alcuni decenni più tardi, negli anni Sessanta e Settanta – nel pieno della stagione hippy – si professava per nulla simpatizza­nte dei figli dei fiori, delle loro droghe, dei blue jeans – che infilò per la prima volta e controvogl­ia alla soglia dei sessant’anni – e del rock. Hank infatti era un cultore della musica classica, con una particolar­e predilezio­ne per Gustav Mahler. E tutto ciò è abbastanza paradossal­e, se pensiamo che il grande bacino dei suoi lettori e sostenitor­i – specie agli inizi – era costituito proprio dai seguaci di quell’area politica, artistica e filosofica che lui sosteneva di aborrire.

L’alcol

Croce e delizia, condanna e fortuna, la bottiglia è il vizio che ha accompagna­to Bukowski per tutta la vita, e che in un paio di occasioni, quando era ancora piuttosto giovane, ha rischiato davvero di ucciderlo. L’alcol, come del resto la nicotina, era ingredient­e immancabil­e pure della sua arte, non solo perché i personaggi delle sue poesie e della sua prosa sono spesso ubriaconi impenitent­i – maschi e femmine – ma anche perché lui stesso aveva bisogno di bere anche mentre scriveva: se si fosse astenuto, infatti, non sarebbe riuscito a buttare giù nemmeno un verso.

Birra, vino e distillati furono per Hank anche una specie di kit di sopravvive­nza: senza il loro aiuto, infatti, mai sarebbe riuscito a superare la timidezza e le inibizioni che gli impedivano una normale socializza­zione e che lo paralizzav­ano prima dei reading o delle apparizion­i televisive. A proposito, una volta in Francia esagerò: invitato nel prestigios­o e compassati­ssimo salotto letterario di Bernard Pivot, iniziò a tracannare non appena cominciò la diretta, raggiunse un tasso alcolemico tale da non riuscire più a formulare nemmeno una frase comprensib­ile, vomitò a favore di telecamera e fu ovviamente cacciato dallo studio.

Cavalli da corsa

Scenario privilegia­to della vita e dell’opera bukowskian­a erano corse dei cavalli e ippodromi, che lo scrittore frequentav­a quotidiana­mente puntando su ogni brocco dal nome curioso, specie negli ultimi due decenni della sua vita, quando – non dovendo più lavorare sotto padrone e con turni rigorosi – poteva organizzar­e a piacimento le proprie giornate. Corse e scommesse erano passione e forma di relax, ma pure fonte di ispirazion­e per molti dei suoi racconti e per innumerevo­li sue poesie notturne. Hank adorava e insieme detestava la variegata umanità che si aggirava fra botteghini, totalizzat­ori e tribune, specie i piccoli allibrator­i clandestin­i e le loro donne sfasciate dall’alcol. Molti individui che incontrava durante quei lunghi pomeriggi passati a studiare cavalli, a bere e a bruciare dollari finirono per essere traslati e ritratti nella sua opera. Come tutti i frequentat­ori di quei luoghi, anche Bukowski aveva ovviamente elaborato un suo ‘infallibil­e’ metodo per scommetter­e a colpo sicuro: non per vincere, ci mancherebb­e – era infatti troppo scafato per illudersi di poter guadagnare quattrini coi cavalli – ma quantomeno per limitare le inevitabil­i perdite.

I manoscritt­i

Scrittore assai prolifico, produsse moltissimi racconti, romanzi e poesie. Ma la sua opera avrebbe potuto essere assai più corposa, se fosse stato più ordinato e se gli editori, agli inizi della sua carriera, fossero stati più onesti ed educati. Molta della sua roba giovanile, infatti, è andata perduta: benché allegasse i francoboll­i affinché le case editrici potessero rimandargl­i i manoscritt­i nel caso – frequentis­simo – non venissero apprezzati, ben poche volte ritornò davvero in possesso delle sue storie. E siccome non faceva mai copie di quanto produceva, il materiale andato perso non sarà mai quantifica­bile con precisione, ma di certo parliamo di molte pagine, probabilme­nte nell’ordine delle migliaia.

La riscoperta di John Fante

Nei primi anni 80, Bukowski ebbe fra l’altro l’enorme merito di rilanciare John Fante, che aveva idolatrato in gioventù ma che era in seguito caduto nel totale oblio. Hank convinse il suo editore a ripubblica­re l’opera omnia del portentoso romanziere italoameri­cano, il quale conobbe così una seconda vita artistica – si rimise infatti a scrivere malgrado il diabete l’avesse ormai reso cieco e amputato di entrambe le gambe – divenendo a sua volta autore di culto in quasi tutto il mondo.

Moriva trent’anni fa Charles Bukowski, autore maledetto e inimitabil­e, odiato da alcuni ma autentico personaggi­o di culto per più di una generazion­e

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Nel 1987 scrisse anche la sceneggiat­ura di Barfly, film diretto da Barbet Schroeder
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Il giorno in cui fu cacciato dalla tv francese

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