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‘Non con uno schianto, ma con un lamento’

- Di Jacopo Scarinci

La Lega per come la conosciamo rischia di finire “non già con uno schianto, ma con un lamento”, potremmo dire prendendo a prestito le parole del poeta britannico Thomas S. Eliot. Le dimissioni del capogruppo in Gran Consiglio Boris Bignasca, compresa l’immediata richiesta di una parte dello stesso gruppo di ripensarci, sono solo l’ultimo di una lunga serie di eventi che attestano il logorament­o di un movimento che, nato oltre trent’anni fa grazie a intuizioni geniali e una freschezza che i tempi forse chiedevano, è diventato niente più di quanto hanno sempre contestato: i maiali della ‘Fattoria degli animali’ di George Orwell che dopo aver guidato la rivolta finiscono a mangiare seduti comodament­e a tavola. Inciuci, conflitti d’interesse e poltrone nei Consigli d’amministra­zione in teoria dovrebbero essere quanto di più lontano dal movimento di via Monte Boglia, in pratica sono invece diventati unità di misura di un’azione politica che scontenta un elettorato di destra sempre più captato dalla concretezz­a democentri­sta, rispetto agli svolazzi di una Lega diventata ormai sbiadita immagine nostalgica di se stessa. Il tema è sempre lo stesso, che si trascina stancament­e. Il non essere stati in grado di costruire una reale, riconosciu­ta e riconoscib­ile struttura di partito, è passato dall’essere arma utile per dire di “non essere come loro” al caos più totale, alle lotte intestine dietro le risottate, al grande mito sfavillant­e della Lega “barricader­a” contro quella istituzion­ale, a patto che siano davvero mai esistite queste due facce della stessa ormai opaca medaglia.

La politica, quella vera, passa dalle persone. E di persone nella Lega, dietro ai due consiglier­i di Stato – uno dei quali pure divenuto coordinato­re, perché unico collante possibile e immaginabi­le in quel tana libera tutti – ce ne sono poche. Quando i nodi vengono al pettine anche il più gagliardo dei movimentis­ti scopre come d’incanto che i partiti sono una cosa seria, richiedono un ordine interno e una gerarchia chiara. La Lega ci sta arrivando a tentoni e col fiato grosso. Prima con il Consiglio esecutivo, poi con la nomina di Norman Gobbi a coordinato­re con quattro vice voluti apposta con un mix tra esperienza e novità. Recuperare in poco tempo tutto il terreno perduto non sarà però facile, e il clima che si respira, quella metà dei presenti alla riunione del gruppo leghista di mercoledì che si è parecchio arrabbiata per la deriva “poltronara”, sono a testimonia­re la difficoltà nel portare avanti la nave che sta vivendo ora Gobbi, e un domani vivrà chissà chi. Tutto questo, con l’Udc alla finestra che la guarda sorniona come un gatto col topo e con il suo presidente cantonale Piero Marchesi primo subentrant­e dei due eletti leghisti in governo. Tutto questo, con il presidente nazionale democentri­sta e consiglier­e agli Stati Marco Chiesa candidatos­i a Lugano per vincere, andando oltre la commovente tiritera del mettersi a disposizio­ne della città che ama. Città governata da quel Michele Foletti che, come Boris Bignasca, sbatté la porta quando era capogruppo in Gran Consiglio perché sfiduciato dai suoi commissari della ‘Gestione’ durante il dibattito in vista del voto sul Preventivo 2021. Le sue parole? “Non mi è più riconosciu­ta l’autorevole­zza”. Corsi e ricorsi storici di un movimento che non si è mai fatto partito. E ora guarda la pioggia cadere. Senza schianto, ma con un lamento.

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