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San Diego, la città-videogioco che non vede più la realtà

Sembra partorita da un computer: allontanan­dosi dai quartieri alla moda, ecco i diseredati, che si aggirano come fantasmi, fino al muro col Messico

- di Roberto Scarcella

Questa è la prima puntata di un lungo viaggio negli Stati Uniti, che si concluderà con le elezioni presidenzi­ali del prossimo 5 novembre

San Diego è un videogioco, un’annoiata partita di Sim City tirata troppo per le lunghe da qualcuno con poca fantasia. L’ottava città più popolosa d’America – progettata con squadra e righello– ha una perfezione geometrica che le conferisce un’aria asettica, da non luogo post-qualcosa che ancora non è dato sapere. Chissà se diventerà mai un museo a cielo aperto del capitalism­o così come certi vecchi quartieri della Germania Est, con i loro rigorosi ‘plattenbau’, sono ormai monumenti (tuttora abitati e quindi viventi e vissuti) di un’altra epoca che pareva intramonta­bile, quella comunista.

Dentro a questa città-videogioco sembra sia bastato schiacciar­e un tasto sul computer per aggiungere tutto (lo zoo, la base navale, il ponte panoramico, lo stadio di baseball, grattaciel­i su grattaciel­i su grattaciel­i). Poi ti giri, la giri, e non c’è niente. Se non le spiagge, lontane, spinte ai bordi della città, come a La Jolla, l’esclusiva zona nord le cui case sembrano tutte uscite da un catalogo di archistar e gli abitanti da un negozio di Prada.

La stessa distanza viene imposta al mare: quello nel centro cittadino, salvo piccole porzioni, resta interdetto al comune mortale (da aree militari, club privati, residenze esclusive). Nei punti in cui la metropoli mette una barriera e non ti permette di andare oltre, ci si sente un po’ come il protagonis­ta di ‘The Truman Show’ quando vede al di là della scenografi­a e scopre il trucco, come un Pac-Man costretto a girare in eterno dentro uno schema predefinit­o. Certo, l’atmosfera a San Diego è tutt’altro che apocalitti­ca. È anzi rilassata, ma solo perché chi ci abita non ha scoperto nel frattempo di vivere in una finzione, ma ci è andata apposta per quello: l’ha voluta, cercata, o ci è cresciuta dentro, pensando che sia la normalità.

I caffè – rigorosame­nte bio – strapieni, i giardini con le fontane per mitigare il caldo california­no, le catene di ristoranti e negozi che ormai hanno spolpato ogni metro quadro e l’idea di comunità locale sono solamente una carissima vetrina dove un espresso costa più che a Zurigo, una birra più che in Norvegia e una cena dozzinale quanto uno stellato in Europa. L’idea di San Diego è quella che meglio fotografa cosa vorrebbero essere gli Stati Uniti se solo potessero ignorare la realtà, chiudersi nella stanzetta e giocare al videogioco da soli. Ma la realtà, appunto, è un’altra, anche a livello politico: 4 degli ultimi 7 sindaci sono finiti nei guai, chi per scandali sessuali, chi per frode. Il penultimo, il repubblica­no Kevin Faulconer, ha strapagato il palazzo della nuova City Hall, che si è scoperta poi inabitabil­e per via dell’amianto, riaprendo nuovi dibattiti su sprechi, incompeten­za e affari sporchi con le agenzie immobiliar­i.

Il vero shock culturale è a soli 45 minuti di tram direzione sud: si chiama Tijuana, che non è solo Messico, è un concentrat­o di frontiera vecchio stile e gioioso imbarbarim­ento che solo l’America Latina può offrirti. Lì gli Stati Uniti hanno innalzato un muro che arriva sino al mare, a dire chiarament­e che i poveri devono stare di là, mentre i dollari, come la droga, possono fare avanti e indietro impunement­e.

Saluti da Tijuana

Guardare il muro dal lato di Tijuana, con croci, nomi (rigorosame­nte latini) di chi non c’è più, appelli alla pace e a un mondo più giusto, ti ricorda che tra cowboy e indiani si è tifato sempre troppo poco quest’ultimi, e anche che per ogni San Diego linda e disegnata a tavolino c’è una Tijuana caotica e impolverat­a, disegnata dal caso: nient’altro che il giardino sul retro dei ricchi dove tutto s’ammucchia per avere sempre il vialetto d’ingresso presentabi­le. “Lasciateci vedere le nostre famiglie”, “Niente muri, solo abbracci”, “Siamo tutti migranti”, “Fate nuove amicizie, non nuove barriere”, “Muro della fratellanz­a”, “Sotto lo stesso cielo”, sono solo alcune delle scritte sul lato messicano. Sulla pelle di quelle persone, e dei loro compatriot­i dall’altra parte del muro, si sta svolgendo buona parte della campagna elettorale tra Biden e Trump, che sono andati proprio là sotto – dal lato senza scritte, quello ordinato e a stelle e strisce – a fare propaganda spicciola. Una posizione quasi naturale per Trump, e che Biden fa sempre più sua, a forza di leggere sondaggi in cui si trova a rincorrere il cowboy più cowboy di tutti. Rientrare a San Diego dal Messico è istruttivo, perché tornano le sequenze matematico-urbanistic­he, non tutte volute. Dentro il perimetro cittadino, nelle vie che incrociano Market Street – l’arteria principale – vedi delle tendopoli che si diradano man mano che ci si avvina al centro: all’inizio anche dieciquind­ici tende di fila, poi sei, tre, infine una proprio là dove terminano i drugstore dove si parla spagnolo e iniziano i locali in franchisin­g, dove spariscono i negozi a 99 cent e cominciano i supermerca­ti con le guardie giurate, dove finiscono i parcheggi gratis e iniziano quelli da 5 e poi 10 dollari l’ora. In quelle strade, a poche centinaia di metri dal caos controllat­o del quartiere storico di Gaslamp e dei suoi cocktail bar alla moda, vagano questi derelitti disfatti da vecchie e nuove droghe e da un sistema che appena finisci per un dollaro sotto la soglia di povertà ti fa cadere in un burrone.

‘Semper vigilans’

La popolazion­e di San Diego ha ormai sviluppato uno strano sesto senso: non è che li evitano, come fa il turista, sembra che non li vedano proprio più, che non esistano. Ai loro occhi sono fantasmi che simaterial­izzano solo e sempre quando provano a varcare la soglia di un negozio, come se lì e solo lì ci fosse una luce speciale che ne rivelasse all’improvviso l’esistenza, in stile Ghostbuste­rs: lì vengono allontanat­i, insultati, disprezzat­i, in alcuni casi compatiti. Dopo qualche metro non esistono di nuovo più. Possono stare male, contorcers­i, urlare, chiedere denaro, lanciare oggetti, spaccare bottiglie, importunar­e il malcapitat­o di turno: niente. Sono semplice rumore di fondo di una città che ha deciso a tavolino di essere quel che è; sono intrusi, personaggi di un videogioco di zombie finiti ad abitare – per uno strano travaso di software, per un cortocircu­ito – dentro la fortezza di Sim City.

A tenerli a bada, un esercito di vigilantes, guardie private e angeli della strada a cui è totalmente delegato il motto cittadino, stampato anche sulla bandiera di San Diego, “Semper vigilans”: sempre vigili.

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KEYSTONE Il profilo di San Diego visto dal mare durante l’arrivo di una navemilita­re
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R. SCARCELLA Il muro che divide San Diego e Tijuana dal latomessic­ano
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KEYSTONE Manifestaz­ionepro-migranti
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