Le difficoltà della democrazia
Il recente libro di Adriano Cavadini, intitolato Democrazia e libertà, pone alcuni interrogativi sulla democrazia con particolare riferimento alla Svizzera, ritenuta dal “Democracy Index 2022 dell’Economist Intelligence Unit”, una democrazia completa. Certamente la nostra democrazia può essere considerata tale in rapporto a certi indicatori di valutazione: abbiamo una buona libertà di stampa, un’economia sufficientemente libera, una ricerca scientifica di tutto rispetto, alcune sicurezze istituzionali e una buona capacità innovativa. Nondimeno lo stesso Cavadini rileva alcuni aspetti critici nei confronti della nostra democrazia: la lentezza nel prendere le decisioni, la crescente disaffezione alle urne, la tendenza al populismo, il venir meno dello “spirito di servizio”.
Se gettiamo lo sguardo oltre il nostro Paese, non possiamo non rilevare che le grandi trasformazioni economiche a livello mondiale hanno messo in discussione gli abituali schemi di riferimento e imposto la necessità di una maggiore competenza nell’affrontare dinamiche non più solo locali. Se per un verso la società è sempre più una fonte inesauribile di domande nei confronti del potere politico, per l’altro verso le nuove esigenze dell’economia sembrano relegare la sfera politica in secondo piano. E ai governanti rimangono poche possibilità di incidere visibilmente sul corso degli eventi.
La crisi economica manifestatasi a partire dal 2008 non è solo una crisi finanziaria e una crisi di regole, ma ha avuto implicazioni sugli strati più profondi della società, toccando gli assetti sociali e il controllo della legalità. Cosicché i valori stessi su cui si fonda la democrazia sono sempre più minacciati dalla competizione globale, dalla mondializzazione, da nuove tecnologie dell’informazione e da tutto ciò che ha scardinato i vecchi compromessi sociali ed economici. L’evoluzione dei mercati finanziari ha comportato una concentrazione impressionante di ricchezza finanziaria in poche mani. Negli Usa, ad esempio, il 10% dei più abbienti detiene l’87% degli attivi finanziari.
Sono venuti meno i pilastri del modello sociale ed economico che hanno caratterizzato gran parte degli anni Ottanta e Novanta in Europa, e si sono sviluppati i dogmi di una globalizzazione virtualmente senza regole. Ciò ha indotto i popoli europei, maltrattati dalla globalizzazione, a cercare spazi di democrazia nel sovranismo e nella protezione dell’interesse nazionale. A partire dagli anni Ottanta del Ventesimo secolo le sfide della globalizzazione hanno messo in crisi lo Stato regolatore e il patto sociale impoverendo in generale le classi medie, strette fra una élite globale di plutocrati sempre più ricchi, e quelle dei Paesi emergenti, che reclamano il posto che compete loro sulla scena globale. Ciò ha messo in crisi l’età d’oro del progetto occidentale, marcata da stabilità e giustizia sociale, e ha portato a una pericolosa tendenza alla disaffezione verso i nostri valori. E questo non è salutare per la democrazia.
Il fatto che l’appello del papa a trattare e (ipoteticamente) ad arrendersi sia indirizzato soltanto all’Ucraina è dovuto forse alla consapevolezza che parlare a Vladimir (anche nome del Gran Principe che fece grande Kiev fino all’invasione dei mongoli, e cristianizzò la Russia) sia come parlare a un muro, come sperimentò Macron tentando invano di convincere Putin a non aggredire l’Ucraina.
Senza giustificare niente né nessuno, bisogna anche tener conto dei “pretesti” costituiti dagli eventi seguiti alla disgregazione dell’Urss e del suo impero. Le repubbliche socialiste sovietiche, tra le quali l’Ucraina, conquistano l’indipendenza; gli stati satellite membri del Patto di Varsavia, antagonista della Nato, passano dalla “sovranità limitata” di brezneviana memoria alla piena sovranità e alla Nato: Albania, Bulgaria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Estonia, Lituania, Romania. La Repubblica russa perde la cintura protettiva di cui godeva l’Urss e si trova circondata alla frontiera da una fascia di Stati potenzialmente ostili, diventati “satelliti” degli Stati Uniti: un’alleanza politico-militare anti-russa, dominata dagli Usa, creata dopo la seconda guerra mondiale proprio allo scopo di prevenire e contenere un ipotetico tentativo di espansione russocomunista verso Ovest. Gli Usa godono di una doppia fascia protettiva a est: l’oceano Atlantico (Nato sta per North Atlantic Treaty Organisation) e l’Europa, potenzialmente destinata a essere di nuovo il campo di battaglia del mondo. L’espansionismo comunista si manifestò concretamente in oriente: in Cina i comunisti di Mao Tse Tung si impadronirono del potere e inglobarono successivamente la colonia inglese di Hong Kong. Reclamano anche Taiwan, l’isola nella quale si rifugiarono i nazionalisti di Chang Kai Check sconfitti da Mao. Dopo la guerra di Corea (1950-1953, 2 milioni di morti) in cui i comunisti del Nord furono fermati al 38º parallelo, quella del Vietnam ha sancito la vittoria e l’espansione del Vietnam comunista del Nord, e la pesante sconfitta degli Usa (preambolo di quella, recente, in Afganistan?).
Che cosa accadrebbe nel caso di aggressione della Cina a Taiwan? Sarebbe la scintilla della terza guerra mondiale? Facciamo gli scongiuri.