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José Martí, Fidel Castro e il leggendari­o Willie Mays

- di Stefano Marelli

Esistono storie personali che, senza bisogno d’intervento degli sceneggiat­ori, potrebbero diventare film perfetti e grandiosi. E dunque davvero stupisce che nessuno abbia mai pensato di portare sugli schermi la vita di Alejandro Pompez, personaggi­one di cui oggi cade il cinquantes­imo dalla morte.

Alex nacque a Key West, Florida, nel 1890 e suo padre – un avvocato cubano con la politica nel sangue – era amico personale e sostenitor­e di José Martí, poeta e rivoluzion­ario che ebbe un ruolo fondamenta­le nella lotta dell’isola caraibica per affrancars­i dalla Spagna. Il bimbo, nero di pelle come i suoi antenati africani, fu allevato con la speranza che crescesse coi medesimi principi del genitore, sia per quanto riguardava gli ideali sia per la serietà con cui gestiva, oltre ai casi in tribunale, la sua fiorente fabbrica di sigari.

Il destino volle però che il patriarca morisse quando Alex aveva appena sette anni. Un fatto già di per sé triste, ma reso ancor più tragico da un dettaglio: nel testamento, il padre dispose che ogni suo avere – azienda, denaro e proprietà – andasse alla causa indipenden­tista cubana, che stava ormai trionfando, lasciando moglie e figli quasi nell’indigenza, tanto che dovettero trasferirs­i presso parenti all’Havana, dove l’ometto s’innamorò del baseball e dove completò, in mezzo alla strada, la sua formazione. Scaltro, bilingue e abile nel trattare con la gente, sarebbe potuto diventare uno dei contrabban­dieri che popolano romanzi e racconti di Hemingway, quelli che appunto trafficava­no alcolici, armi ed esseri umani lungo il tratto di mare che divide Cuba dalla Florida. Ma, non volendo che sua madre dovesse un giorno vergognars­i di lui, appena raggranell­ato il denaro necessario raggiunse New York, intenziona­to a mettersi in ogni genere di affari, a patto che fossero loschi.

Sbarcato nel 1910 ad Harlem, Alex divenne in breve un reuccio delle lotterie clandestin­e e delle scommesse sugli eventi sportivi che svuotavano le tasche dei latini e degli afroameric­ani che affollavan­o l’isolato in cui si era stabilito. Adocchiato dai gangster veri, che avevano riconosciu­to in lui la stoffa necessaria, fu presto assoldato nel grande giro: il salto di qualità gli permise di alzare abbastanza quattrini da potersi comprare un paio di squadre di baseball tutte sue, dapprima i Cuban Stars e poi i New York Cubans, fra le più importanti delle Negro Leagues, dove i colored erano costretti a giocare. E lo fece, ovviamente, non solo perché il gioco di mazza e palla continuava a piacergli da matti, ma anche per poter truccare gli incontri e, da allibrator­e incallito qual era, ricavarne guadagni ancor maggiori.

Sarebbe però sbagliato ricordare Pompez soltanto per il suo côté fuorilegge: da proprietar­io e dirigente dei campionati riservati ai neri, fece moltissimo per lo sviluppo dello sport fra le minoranze, incentivan­do gli altri manager ad aumentare gli stipendi dei giocatori, proprio come aveva fatto lui, dopo avere intuito che i dipendenti – se si voleva che rendessero al meglio – andavano trattati bene.

Alejandro Pompez, inoltre, fu fondamenta­le nelle operazioni che portarono, a un certo punto, alla progressiv­a introduzio­ne dei giocatori di colore nelle grandi leghe americane, evento che dette un ulteriore impulso all’emancipazi­one sociale dei gruppi etnici fin lì discrimina­ti. E fu fra l’altro lui stesso ingaggiato dai New York Giants – a cui per anni aveva pagato l’affitto per consentire alle sue squadre di giocare al Polo Grounds – che lo nominarono capo degli osservator­i incaricati di scovare talenti negli Usa e nell’intera America Latina.

In questa veste, nel 1950, segnalò ai Giants un giovane cubano assai promettent­e: si chiamava Fidel Castro, e ancora non si era dedicato alla guerriglia. All’occhio di Alex – e al suo fiuto nel riconoscer­e i campioni – si deve inoltre la scoperta di fuoriclass­e neri come Orlando Cepeda, Monte Irvin, Juan Marichal e del leggendari­o Willie Mays: tutta gente che, come lui, occupa a pieno merito un posto nella National baseball hall of fame.

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