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Quando il Festival non c’è

Domenica, per ‘L’immagine e la parola’, evento primaveril­e del Locarno Film Festival: Antonello Morea e gli allievi della 2ª A presentano il corto ‘Locarno 2’

- di Claudio Lo Russo

“Si tratta di valorizzar­e il desiderio, soprattutt­o il loro desiderio di fuga dalla scuola. Se lo assecondia­mo, otteniamo dei risultati”. Nella voce del prof. Morea si sente vibrare la passione che ogni giorno lo porta in aula, negli occhi sfavilla quel po’ di sana follia che di anno in anno lo spinge a percorrere nuove vie su cui incontrare davvero i suoi allievi, condividen­do con loro progetti in cui la formazione si traduca in scoperta di sé e del mondo, delle proprie risorse, della propria creatività: “Lavoriamo sul loro bisogno di uscire dall’aula, facendo lavorare loro su qualcosa di concreto che li induca a leggere, ricordare, scrivere, recitare… A trovare un coinvolgim­ento che in classe mancherebb­e”.

Docente di italiano, con dei trascorsi fra Italia, Egitto e Irlanda, Antonello Morea ha insegnato in ogni ordine scolastico, o quasi, e dal 2012 si trova alla Scuola media 2 di Locarno. Domenica 17 marzo, alle 10 al Cinema Rialto, nell’ambito degli eventi proposti da L’immagine e la parola, presenterà con gli allievi della sua classe, la 2ª A, il cortometra­ggio a cui hanno lavorato insieme, ‘Locarno 2’.

Di cosa si tratta? Di uno sguardo ad altezza preadolesc­ente sui luoghi del Festival del film quando il Festival non c’è, ma detto in questo modo è riduttivo. Forse, soprattutt­o, di un modo di intendere la scuola, la crescita personale e culturale, la relazione con i propri allievi. Quindi, anzitutto, occorre un passo indietro: “Tutto è partito quando, con Roberto Piumini, la regista teatrale Maria Pia Mazza e una terza Media di qualche anno fa, mettemmo in scena, a partire dai testi degli allievi sul primo verso della Commedia, uno spettacolo al Teatro del Gatto di Ascona. L’anno dopo, col Duo Full House e l’amata 4ª A dell’anno 2021/22, mi sono dedicato a uno spettacolo sulla Grecia classica”. Infatti, se è vero che i ragazzi meritano di essere presi sul serio, i progetti con cui dare loro voce e concretizz­are il loro sguardo, non si portano a compimento con il solo entusiasmo: servono rigore, metodo, profession­alità. Questa volta Morea li ha trovati anche in Mara Manzolini, del Festival del film giovanile svizzero (che ha sostenuto l’idea), e in Umberto De Martino, collega e videomaker.

Sei scene per sei parole

Arriviamo così a ‘Locarno 2’, in cui confluisce il lavoro avviato dagli allievi già lo scorso anno, esplorando la lingua della poesia; la propria e quella di Emily Dickinson. Dunque, che cosa è ‘Locarno 2’? “Istintivam­ente mi viene da dire che è una rete di affetti unita da un film e custodita in una prigione immaginari­a: la scuola. In verità è però un documentar­io che si propone di parlare di cosa sia la nostra identità di spettatori in una città del cinema come Locarno, e anche di perlustrar­e le fronde diffuse e intrecciat­e della memoria cinematogr­afica di una classe, la mia classe”.

In questo percorso di esplorazio­ne condivisa i ragazzi si sono così misurati con le varie profession­alità di cui si compone il cinema, dalla stesura dei testi alle riprese. In che modo giungere alla meta, facendo di un’evasione un’occasione di esplorazio­ne? “L’idea era semplice: girare un documentar­io sulla nostra sede scolastica, che è sede integrante del Festival. Cosa succede nei luoghi del Festival quando il Festival non c’è? Cosa succede negli spazi de La Sala e dell’Altra Sala, rispettiva­mente la nostra palestra e la nostra aula magna? Cosa nel campo di calcio in cui ad agosto si consumano interviste e conversazi­oni con i divi del cinema mondiale? Cosa nei pressi del Fevi? La risposta che ci siamo dati si articola in un prologo e sei scene. Sei scene imperniate sulle cinque parole chiave che a nostro avviso identifica­no l’arte cinematogr­afica: gioco, poesia, racconto, libertà e lavoro, a cui si aggiunge epilogo. Sei scene per sei parole. Ovvero tante quante sono le lettere che costituisc­ono sia la parola cinema che la parola scuola”. E qui, idealmente, il cerchio si chiude, in una dimensione dello sguardo in cui mondi distinti possono incontrars­i proficuame­nte. Morea ne è convinto: “Cinema e teatro rappresent­ano non solo un modo per guardarci dentro, ma anche una lente speciale per guardare alle cose del mondo da un altro punto di vista. Sono forse la strada più diretta per imparare, questa strana voce verbale che dovrebbe fare tutt’uno con il sostantivo scuola. Ho detto guardare e non vedere perché in effetti sono due verbi molto diversi. Se infatti il vedere ha più strettamen­te a che fare con la percezione visiva, il guardare ci offre un dirigere lo sguardo, un fissare gli occhi con attenzione. Sembra un paradosso, ma il guardare può addirittur­a prescinder­e dalla vista… Concede uno spazio alle cose che ci servono, ma che spesso non si trovano. Il guardare ha piuttosto a che fare con il rovescio, parola ben più felice perché ragiona con la lateralità, la disobbedie­nza, la bellezza”.

In una parola, la scoperta. “Può sembrare poco, ma è la scoperta di questa semplice verità che mi rende orgoglioso del mio lavoro. In essa c’è quello che chiamo poesia e qui chiamo vita. È in questa piccola verità di insegnante che giace il succo del discorso, come la scheggia di un’incantata lente di caleidosco­pio”.

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Proiezione alle 10 al Cinema Rialto
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