Moncler, il mezzo miracolo del made in Italy
Il Ceo: ‘Siamo piccoli tra i grandi e grandi tra i piccoli’
Moncler è un caso finanziario e industriale, indicata in questi giorni dagli osservatori come storia di successo del made in Italy manifatturiero. Ha quintuplicato i ricavi in dieci anni e oggi sfiora i tre miliardi. Da quando si quotò, nel 2013, ha moltiplicato la capitalizzazione quasi per otto e ora con 19 miliardi (dai 2,5 iniziali) è la prima società del lusso in Italia per valore di mercato, «quinta nel mondo dopo Lvmh, Hermès, Richemont e Kering», sottolinea il Ceo del gruppo, Remo Ruffini. Il titolo ha raggiunto il massimo storico in Borsa il 14 marzo scorso: 70,34 euro, dai 10,20 del debutto.
L’azienda è passata da essere brand dei paninari a riferimento delle signore sofisticate, dai multimarca generici ai monomarca di via Monte Napoleone e Bond Street. Soprattutto, è rimasta italiana mentre altri vendevano e ha nel capitale anche i grandi investitori esteri, che ultimamente faticano a concentrarsi sull’Italia. Dal 2013 i suoi dipendenti, inclusa Stone Island rilevata nel 2021, sono saliti da 1’550 a oltre 7’500. È in 70 Paesi dagli Usa alla Cina, il 90% dei ricavi è con l’estero.
La strategia
Pare insomma che quest’impresa, passata dal private equity e dalla Borsa, abbia fatto la fortuna di tutti: di sé stessa, dei fondi che vi sono entrati (in testa Carlyle, con Marco De Benedetti) e del mercato. Un mezzo miracolo.
Ma se si chiede al primo azionista Ruffini, che del gruppo Moncler è anche presidente e guida l’azienda dal 2002, come ha fatto a ottenere tutto ciò, lui la prende larga. «La storia dura da 20 anni – dice –. Mi sono affezionato alla marca quando ero ragazzino. Andavo a scuola in motorino da Grandate ai Salesiani di Como con questa giacca superlucida e superleggera, l’ho usata per anni. Quando ho potuto, ho comperato l’azienda». Era il 2003, il concetto è rimasto lo stesso: concentrarsi sul marchio. E poi «prudenza, flessibilità sulla filiera, allargare la gamma mantenendo la riconoscibilità del brand». Naturalmente, «qualità». Oggi anche sostenibilità, che fra l’altro al mercato piace. Il gruppo è primo da cinque anni negli indici Dow Jones Sustainability, World e Europe.
«I primi anni non sono stati facili – dice Ruffini –. Ho lavorato molto sulla filiera poi ho dovuto entrare nei canali premium. Ero ossessionato dal creare una grande marca. Ho aumentato le risorse umane con persone che venivano da altri mestieri, non dallo sport. Mi sono specializzato sul prodotto». Oggi Ruffini è anche direttore creativo: rinunciare al «designer star» del momento è una «scelta di unicità, che evita scossoni quando se ne va», dice, a fronte di «un team stile molto esperto» e una prima linea strutturata. «Siamo piccoli tra i grandi e grandi tra i piccoli», ama dire Ruffini, ragioniere («Sulle camicie avevo ricamato le tre R, mi è spiaciuto poi perderne una») con laurea honoris causa assegnata l’anno scorso a Londra dalla University for the creative arts (Uca). Ha deciso di spingere sui negozi diretti anziché sul franchising per «stare più vicino al cliente e capire in fretta i cambiamenti» e del settore sostiene: «Credo che chi non ha venduto finora non lo farà, in Italia abbiamo ancora grandi marchi», comunque «il polo italiano della moda è irrealizzabile». Se deve scegliere uno slogan, oltre che «niente compromessi», dice: «Parlare chiaro». In primo luogo agli investitori. «Non penso assolutamente al delisting – dice, dopo le annunciate uscite di Tod’s e Saras –. La Borsa ti porta tantissimo. Pensavo di essere preparato alla quotazione dal training con i fondi di private equity (oltre a Carlyle anche Progressio ed Eurazeo, ndr), che hanno fatto la differenza su rigore e governance, ma quando ho iniziato i roadshow mi sono reso conto che la Borsa è a un altro livello nel rapporto con gli investitori. Sapevo che il limite era la visione di breve periodo, ma il confronto era interessante e avevo un punto: non guidare un’azienda che ragiona a tre mesi. Se presenti un progetto di lungo periodo, gli investitori ti capiscono. Certo, devi essere molto chiaro, saper dialogare, raccontare anche le debolezze. Abbiamo sempre avuto soprattutto investitori esteri».
Il capitale, i piani
Stabili sono i tre americani: Morgan Stanley (8,6%), Capital Research (5%) e Blackrock (4,2%). Affiancano il primo azionista che con il 15,81% è Double R, oggi controllata da Ruffini al 100%, dopo che Venezio Investment (Temasek, Singapore) e Grinta (famiglia di Carlo Rivetti, presidente di Stone Island) sono usciti nei giorni scorsi dalla holding, diventando soci diretti di Moncler con il 4,5% e il 3,9%. «Naturale evoluzione», commenta Ruffini che regge forte il timone, mentre i suoi figli sono impegnati nella galassia di gruppo. Romeo, ex Equinox, è capo del business development in Stone Island e Pietro è Ceo di Archive, la holding di famiglia che partecipa Langosteria. «Vogliamo sviluppare piccoli business alternativi al nostro settore con imprenditori eccellenti – dice Ruffini –, investire in società dove conosciamo il consumatore finale». L’altro mantra.
Il 2023 è stato un anno record per il gruppo. Ricavi a 2,984 miliardi (+17%), un ebit di 611,9 milioni (da 606,7); oltre un miliardo di cassa netta, dopo 303,4 milioni di dividendi. «Il 2024 è partito bene, ma mi aspetto volatilità, con i consumi altalenanti e i tassi alti».
Quest’anno per il brand Moncler, che dal 2013 ha quasi triplicato i punti vendita da 100 a 269, è prevista «l’apertura di circa 15 nuovi negozi», ma anche una maggiore produzione interna di maglieria (15%-20% dei ricavi) con un nuovo stabilimento in Veneto. A Trebaseleghe (sede italiana, l’altro fulcro del gruppo è in Romania) «vogliamo creare un polo di maglieria d’eccellenza. La maglieria sarà sempre più rilevante». Altra leva per affrontare i rivali.
«Il mercato del lusso è di due grandi conglomerati francesi e non è facile combattere con i colossi. Perciò serve una strategia unica. Devo avere la voce sufficiente per dialogare con i consumatori con unicità e creatività».
C’era questo dietro la campagna di oltre dieci anni fa con i piumini indossati dai cani («Non potevo permettermi le modelle famose») ed è con questo spirito multigenerazionale che oggi il gruppo è diviso su tre pilastri: Moncler Collection, per i capi 365 giorni all’anno; Grenoble, più vicino alla montagna; Moncler Genius, con un’impronta più artistica e creativa. «Cerchiamo di costruire una cultura di rispetto del consumatore».