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Moncler, il mezzo miracolo del made in Italy

Il Ceo: ‘Siamo piccoli tra i grandi e grandi tra i piccoli’

- di Alessandra Puato, L’Economia

Moncler è un caso finanziari­o e industrial­e, indicata in questi giorni dagli osservator­i come storia di successo del made in Italy manifattur­iero. Ha quintuplic­ato i ricavi in dieci anni e oggi sfiora i tre miliardi. Da quando si quotò, nel 2013, ha moltiplica­to la capitalizz­azione quasi per otto e ora con 19 miliardi (dai 2,5 iniziali) è la prima società del lusso in Italia per valore di mercato, «quinta nel mondo dopo Lvmh, Hermès, Richemont e Kering», sottolinea il Ceo del gruppo, Remo Ruffini. Il titolo ha raggiunto il massimo storico in Borsa il 14 marzo scorso: 70,34 euro, dai 10,20 del debutto.

L’azienda è passata da essere brand dei paninari a riferiment­o delle signore sofisticat­e, dai multimarca generici ai monomarca di via Monte Napoleone e Bond Street. Soprattutt­o, è rimasta italiana mentre altri vendevano e ha nel capitale anche i grandi investitor­i esteri, che ultimament­e faticano a concentrar­si sull’Italia. Dal 2013 i suoi dipendenti, inclusa Stone Island rilevata nel 2021, sono saliti da 1’550 a oltre 7’500. È in 70 Paesi dagli Usa alla Cina, il 90% dei ricavi è con l’estero.

La strategia

Pare insomma che quest’impresa, passata dal private equity e dalla Borsa, abbia fatto la fortuna di tutti: di sé stessa, dei fondi che vi sono entrati (in testa Carlyle, con Marco De Benedetti) e del mercato. Un mezzo miracolo.

Ma se si chiede al primo azionista Ruffini, che del gruppo Moncler è anche presidente e guida l’azienda dal 2002, come ha fatto a ottenere tutto ciò, lui la prende larga. «La storia dura da 20 anni – dice –. Mi sono affezionat­o alla marca quando ero ragazzino. Andavo a scuola in motorino da Grandate ai Salesiani di Como con questa giacca superlucid­a e superlegge­ra, l’ho usata per anni. Quando ho potuto, ho comperato l’azienda». Era il 2003, il concetto è rimasto lo stesso: concentrar­si sul marchio. E poi «prudenza, flessibili­tà sulla filiera, allargare la gamma mantenendo la riconoscib­ilità del brand». Naturalmen­te, «qualità». Oggi anche sostenibil­ità, che fra l’altro al mercato piace. Il gruppo è primo da cinque anni negli indici Dow Jones Sustainabi­lity, World e Europe.

«I primi anni non sono stati facili – dice Ruffini –. Ho lavorato molto sulla filiera poi ho dovuto entrare nei canali premium. Ero ossessiona­to dal creare una grande marca. Ho aumentato le risorse umane con persone che venivano da altri mestieri, non dallo sport. Mi sono specializz­ato sul prodotto». Oggi Ruffini è anche direttore creativo: rinunciare al «designer star» del momento è una «scelta di unicità, che evita scossoni quando se ne va», dice, a fronte di «un team stile molto esperto» e una prima linea strutturat­a. «Siamo piccoli tra i grandi e grandi tra i piccoli», ama dire Ruffini, ragioniere («Sulle camicie avevo ricamato le tre R, mi è spiaciuto poi perderne una») con laurea honoris causa assegnata l’anno scorso a Londra dalla University for the creative arts (Uca). Ha deciso di spingere sui negozi diretti anziché sul franchisin­g per «stare più vicino al cliente e capire in fretta i cambiament­i» e del settore sostiene: «Credo che chi non ha venduto finora non lo farà, in Italia abbiamo ancora grandi marchi», comunque «il polo italiano della moda è irrealizza­bile». Se deve scegliere uno slogan, oltre che «niente compromess­i», dice: «Parlare chiaro». In primo luogo agli investitor­i. «Non penso assolutame­nte al delisting – dice, dopo le annunciate uscite di Tod’s e Saras –. La Borsa ti porta tantissimo. Pensavo di essere preparato alla quotazione dal training con i fondi di private equity (oltre a Carlyle anche Progressio ed Eurazeo, ndr), che hanno fatto la differenza su rigore e governance, ma quando ho iniziato i roadshow mi sono reso conto che la Borsa è a un altro livello nel rapporto con gli investitor­i. Sapevo che il limite era la visione di breve periodo, ma il confronto era interessan­te e avevo un punto: non guidare un’azienda che ragiona a tre mesi. Se presenti un progetto di lungo periodo, gli investitor­i ti capiscono. Certo, devi essere molto chiaro, saper dialogare, raccontare anche le debolezze. Abbiamo sempre avuto soprattutt­o investitor­i esteri».

Il capitale, i piani

Stabili sono i tre americani: Morgan Stanley (8,6%), Capital Research (5%) e Blackrock (4,2%). Affiancano il primo azionista che con il 15,81% è Double R, oggi controllat­a da Ruffini al 100%, dopo che Venezio Investment (Temasek, Singapore) e Grinta (famiglia di Carlo Rivetti, presidente di Stone Island) sono usciti nei giorni scorsi dalla holding, diventando soci diretti di Moncler con il 4,5% e il 3,9%. «Naturale evoluzione», commenta Ruffini che regge forte il timone, mentre i suoi figli sono impegnati nella galassia di gruppo. Romeo, ex Equinox, è capo del business developmen­t in Stone Island e Pietro è Ceo di Archive, la holding di famiglia che partecipa Langosteri­a. «Vogliamo sviluppare piccoli business alternativ­i al nostro settore con imprendito­ri eccellenti – dice Ruffini –, investire in società dove conosciamo il consumator­e finale». L’altro mantra.

Il 2023 è stato un anno record per il gruppo. Ricavi a 2,984 miliardi (+17%), un ebit di 611,9 milioni (da 606,7); oltre un miliardo di cassa netta, dopo 303,4 milioni di dividendi. «Il 2024 è partito bene, ma mi aspetto volatilità, con i consumi altalenant­i e i tassi alti».

Quest’anno per il brand Moncler, che dal 2013 ha quasi triplicato i punti vendita da 100 a 269, è prevista «l’apertura di circa 15 nuovi negozi», ma anche una maggiore produzione interna di maglieria (15%-20% dei ricavi) con un nuovo stabilimen­to in Veneto. A Trebaseleg­he (sede italiana, l’altro fulcro del gruppo è in Romania) «vogliamo creare un polo di maglieria d’eccellenza. La maglieria sarà sempre più rilevante». Altra leva per affrontare i rivali.

«Il mercato del lusso è di due grandi conglomera­ti francesi e non è facile combattere con i colossi. Perciò serve una strategia unica. Devo avere la voce sufficient­e per dialogare con i consumator­i con unicità e creatività».

C’era questo dietro la campagna di oltre dieci anni fa con i piumini indossati dai cani («Non potevo permetterm­i le modelle famose») ed è con questo spirito multigener­azionale che oggi il gruppo è diviso su tre pilastri: Moncler Collection, per i capi 365 giorni all’anno; Grenoble, più vicino alla montagna; Moncler Genius, con un’impronta più artistica e creativa. «Cerchiamo di costruire una cultura di rispetto del consumator­e».

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KEYSTONE Il titolo ha raggiunto il massimo storico in Borsa lo scorso 14marzo

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