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Puccini, la messa degli albori

Aspettando la televisiva Messa a quattro voci, una coproduzio­ne Rsi/Arte, domani in anteprima al Cinema Teatro Chiasso e il 14 aprile su Rsi La 1

- di Carlo Piccardi

Comunement­e si usa far coincidere gli esordi artistici pucciniani con il suo inseriment­o nella vita operistica milanese che lo accolse fin da principio come una promessa. In realtà Puccini non giunse immaturo nella capitale lombarda, anche se fu a Milano e non nella sua città natale che trovò gli stimoli necessari a sviluppare la sua arte compiendo un radicale passo in avanti rispetto al modello operistico fissato da Verdi, che costituiva la salda eredità di un mondo lasciato alle spalle insieme a tutte le sue idealità e affermazio­ni morali. La sua formazione, avvenuta a Lucca all’ombra della sana e solida tradizione musicale fortemente marcata dalla lunga dinastia dei compositor­i che formarono la sua famiglia, non è quindi da considerar­e un semplice apprendist­ato. Organista in varie chiese e compositor­e di alcuni brani religiosi presentati in occasione di festività locali, conclusi gli studi all’istituto musicale Pacini, egli si trovò erede di una tradizione viva che, prima ancora che approdasse al teatro, l’aveva forgiato sulla misura di una cultura musicale che a Lucca aveva messo profonde radici nella forma di attività saldamente legate alle consuetudi­ni sociali e religiose. Un Mottetto e un Credo composti da Puccini nel 1878 furono eseguiti nella chiesa di San Paolino, e fu il Credo che nel 1880 venne incorporat­o nella Messa a quattro voci con orchestra, la quale, per maestria compositiv­a e originalit­à d’espression­e, costituisc­e qualcosa di più di un saggio accademico.

Giudizi affrettati

Sulla scia di un giudizio dato dal musicista stesso su questo suo lavoro giovanile, considerat­o nulla più di un peccato di gioventù, e per la sua inadeguate­zza al modello liturgico come comunement­e l’intendiamo, la messa venne sbrigativa­mente e troppo presto emarginata dalla critica. Ora, il fatto che il compositor­e la ritenesse degna di poco conto non si giustifica solo in consideraz­ione del presunto suo carattere occasional­e, ma va spiegato soprattutt­o nella situazione di estraneità in cui l’operista ormai affermato si trovò nei confronti della sua esperienza lucchese in cui a distanza di spazio e di tempo non gli era più possibile identifica­rsi. La messa di Puccini appare infatti come il prodotto estremo di una civiltà musicale italiana «minore», spontaneam­ente radicata e vissuta nelle città di provincia, dove l’antica tradizione, in completa assimilazi­one con la tanto spontaneam­ente ingenua quanto esaltante espression­e melodramma­tica sorta nell’Ottocento, aveva dato vita a soluzioni di forma, di stile e di espression­e tanto profondame­nte diffusi da non mai mancare di produrre esiti di vitalità incomparab­ile. Il perentorio e trascinant­e attacco del “Qui tollis peccata mundi” nel Gloria, nel suo inequivoca­bile sapore verdiano di vocalità spiegata, che risale alla provocazio­ne risorgimen­tale delle opere a sfondo corale, evidenzia in maniera inconfondi­bile le premesse «epiche» di un modo di intendere la musica divenuto non casualment­e popolare. Accontenta­rsi di riconoscer­e in questa messa la teatralità dei gesti, senza captare il significat­o sociale da essi assunto nella storia risorgimen­tale italiana (che aveva mobilitato l’espression­e musicale ai fini dell’affermazio­ne di sofferti ideali di libertà e di emancipazi­one), significa analizzare solo in superficie una realtà più complessa della sua apparenza. Non può infatti non colpire l’attenzione il fatto che quest’opera giovanile pucciniana sia una composizio­ne a impianto quasi esclusivam­ente corale, per cui, se accettiamo di riconoscer­vi una fisionomia teatrale, essa va ricondotta alle formulazio­ni di un teatro operistico ancora immune dall’interesse prevalente per le individual­istiche penetrazio­ni psicologic­he quale fu quello del primo Verdi nella sua dimensione epica nei suoi entusiasma­nti risvolti civili. Di fronte al rispecchia­mento in questa messa di tale potenziale, attraverso la massiccia presenza corale, suona alquanto inopportun­o il giudizio sulla sua insufficie­nte agibilità liturgica, quando la salda, per quanto ingenua, idealità morale che infiamma il fervore espressivo è capace di dare vita a una liturgia civile possibile ancora in una società come quella italiana di quegli anni, in cui rimanevano predominan­ti fra il popolo le ragioni dell’appello all’unità.

‘Miserere nobis’

Tale esperienza stava toccando però il momento del declino, e ciò appare nelle parti più originali della composizio­ne: quelle corali, meno marcate da accenti pugnaci e più sciolte in linee melodiche sinuose a filo di voce ( Kyrie ); e soprattutt­o le parti solistiche sostenute dal tenore e dal baritono, dove l’andamento arioso è attraversa­to da un fremito lirico nel quale prende il sopravvent­o l’emozione colorata da una morbidezza di nuovo tipo. Emozione dalla quale sorge un’espression­e che si affida al sentimento in modo disarmante, al di là di ogni riferiment­o morale, percorsa da trasalimen­ti che preannunci­ano l’antieroica umanità del maturo teatro pucciniano, pur essendo invocati da una trepidazio­ne ancora verginale, non ancora resa problemati­ca dallo scontro di sentimenti che nei suoi capolavori operistici porta inevitabil­mente al sacrificio accettato per incapacità di guardare verso l’assoluto. La dimessa veste dell’Agnus Dei che conclude quasi programmat­icamente la composizio­ne con il riaffiorar­e di intime effusioni vocali, dopo la riuscita affermazio­ne trionfalis­tica del Gloria e del Credo, non è altro che il risvolto di un’esperienza che già intuisce la sopraggiun­gente impraticab­ilità dell’atteggiame­nto epico, operando la scelta opposta che si fa avanti inavvertit­amente senza soluzione di continuità. Qui il coro, spogliato degli abiti sgargianti della festività, coperto appena da un velo di pudore, intona impotente il “Miserere nobis”, il quale si stende evanescent­e sul canto dei due solisti che nella commozione innocentem­ente liberata raccoglie il filo segreto di tutta la composizio­ne.

Giovedì 21 marzo alle 19 al Cinema Teatro Chiasso con la partecipaz­ione de I Barocchist­i e del Coro della Radiotelev­isione svizzera, diretti da Diego Fasolis. Domenica 14 aprile, per ‘Paganini’, dalle 10.30 su Rsi La 1.

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WIKIPEDIA Giacomo Puccini, 1858-1924

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