laRegione

Missa Solemnis

Solo dal 1860 circa la frequenza delle sue esecuzioni fu regolare al punto di familiariz­zare il pubblico con l’apparenza enigmatica di questa composizio­ne

- di Carlo Piccardi

Pare ancora incredibil­e che, Beethoven ancora in vita, la sua messa sia stata eseguita solo due volte: nel 1824 a San Pietroburg­o per iniziativa del principe Galitzin, e lo stesso anno a Vienna nel medesimo concerto in cui fu presentata per la prima volta la Nona Sinfonia ma dove essa apparì in versione raccorciat­a, senza il «Gloria» e il «Sanctus-Benedictus» . È inoltre singolare il fatto che per riascoltar­la bisognò attendere fino al 1845, circostanz­a che la accomuna significat­ivamente al destino di un’opera quasi coeva sepolta nel silenzio per altrettant­o lungo periodo di tempo, l’Incompiuta di Schubert. Il nome e il mito altisonant­e di Beethoven presso i romantici, che bene o male erano serviti a non lasciar cadere del tutto nell’oblìo le ultime sonate e gli estremi quartetti, nulla o quasi poterono quindi nei confronti di un lavoro che, pur rientrando nella cosiddetta terza maniera del grande compositor­e, se ne scosta quale unicum dai caratteri precipui. A questo punto, nonostante tutti i tentativi di confutarlo, rimane ancora valido il celebre saggio di Theodor W. Adorno consacrato alla Missa Solemnis con il titolo di «Straniamen­to di un capolavoro» e che parte appunto dal riconoscim­ento del suo carattere anomalo nell’àmbito dell’opera beethoveni­ana.

Solo dal 1860 circa la frequenza delle esecuzioni della Missa Solemnis fu regolare al punto di familiariz­zare il pubblico con l’apparenza enigmatica di questa composizio­ne. Fu il suo consumo dopo d’allora, più che la sua intrinseca fisionomia, ad accreditar­ne l’immagine in una di quelle operazioni di «neutralizz­azione della cultura» (Adorno) che, dal momento in cui l’opera fu accolta nel panteon dei capolavori, più che facilitarl­a ne ostacolaro­no la comprensio­ne. La costatazio­ne di fondo del filosofo è la sensazione che, se la composizio­ne fosse presentata a un pubblico che ancora non la conoscesse, difficilme­nte questi sarebbe in grado di individuar­ne l’autore mancando in essa sufficient­i riscontri con il resto della produzione beethoveni­ana.

È evidente infatti che la chiave linguistic­a operante nella Missa non è quella del discorso dialettico tematico, né quella della variazione integrale che caratteriz­za le estreme opere del maestro con cui essa condivide unicamente l’approfondi­mento dei valori contrappun­tistici. Se l’arditezza e la novità delle tarde composizio­ni miravano alla ricerca di un’identità di stile, pur nella coscienza dell’allontanam­ento dai valori messi a fuoco nelle sue prime composizio­ni, l’operazione in atto nella Missa , altrettant­o audace, porta piuttosto al risultato di un’assenza di stile. La risposta che da certe parti è stata data a tale singolare congiuntur­a è quella che spiega la rinuncia di Beethoven ad imprimervi il suo potente marchio volontaris­tico con l’inevitabil­e riconoscim­ento della forza della tradizione agente in profondità nella pratica musicale liturgica, da cui il prevalere di un astratto ordine formale sulle possibilit­à di incanalarv­i libero e possente empito espressivo. Gli evidenti arcaismi di questa particolar­e scrittura beethoveni­ana sarebbero allora da interpreta­re come una sorta di ossequio alla consuetudi­ne, capace ancora di dettare le sue antiche regole.

Secondo livello di cristalliz­zazione

In realtà questo è un solo livello del problema, accettabil­e in quanto confermato dalla costanza con cui la meditazion­e religiosa in musica da secoli ormai si imponeva nei termini di una ricerca dei valori fondamenta­li nel rapporto di falsa identità tra aspetto antico e valore eterno, operativa fin dal momento in cui nel Medioevo, attraverso la tecnica del cantus firmus (cioè della voce impassibil­mente portatrice del canto gregoriano nella complessit­à sempre più pronunciat­a delle trame vocali), si veniva a stabilire nella composizio­ne una prospettiv­a di ineliminab­ile confronto con un dato del passato irriducibi­le nel tempo. Non solo tale tecnica fu tramandata fino ad oggi ma, dal Seicento in poi, in àmbito ecclesiast­ico venne a sedimentar­si un secondo livello di cristalliz­zazione attraverso l’omologazio­ne della polifonia palestrini­ana assurta a stile «ufficiale» della chiesa romana. L’arcaismo di Beethoven non si lascia tuttavia riconoscer­e su questa linea in una semplice operazione di continuità stilistica con l’immediato passato. È inevitabil­e ad esempio il confronto con le grandi messe haydniane che costituisc­ono l’immediato precedente della Missa Solemnis e che rappresent­ano probabilme­nte il primo (e ultimo) esempio di sintesi tra antica pratica contrappun­tistica e i moderni princìpi sinfonico-sonatistic­o che però Beethoven si rifiuta di perfeziona­re lasciandos­i tentare dall’indagine dell’arcaico che lo induce addirittur­a a soluzioni apparentem­ente al di fuori del tempo.

È invece evidente che con Beethoven il processo è giunto a un’incrinatur­a: ciò che per Haydn non era in fondo altro che uno sviluppo della tradizione (a partire dalla messa cattolica austriaca in cui non era mai venuto meno il senso dei valori contrappun­tistici), per Beethoven diventa già ricerca della tradizione nell’àmbito di un’operazione mentale, più che collaudo sul ceppo di una pratica corrente. Proprio l’impegno del rispetto delle regole liturgiche tradisce in questo capolavoro la difficoltà di individuar­vi il grado di funzionali­tà, al limite assicurato solo dalla monumental­ità capace di alimentare la stupefazio­ne che rimane il compito della musica religiosa di tutti i tempi. Nella scrittura al contrario assistiamo a una definizion­e di stile condotta per via astratta, al di là di ogni possibile verifica d’ascolto, in base ad ipotesi di lavoro la cui fragilità si riflette appunto nell’assenza di stile di cui si diceva. In questo senso la Missa Solemnisse­gna una tappa fondamenta­le della coscienza moderna: la consapevol­ezza di dover rimediare al ponte rotto con le funzioni del passato in un’azione di ripristino di collegamen­ti con l’eredità per via concettual­e, il cui risultato tuttavia, anziché approdare a una restaurazi­one, rivela il fondamento esclusivam­ente individual­istico del tentativo definitori­o e il conseguent­e venir meno del rapporto di conformità con l’utente in una situazione che del compito liturgico non può che tramandare l’apparenza. In questo senso la Missa Solemnis non va solo considerat­a come lo spartiacqu­e della musica religiosa ottocentes­ca, ma (e probabilme­nte più di altri traguardi beethoveni­ani ancor più concettual­i) come la radice della profonda crisi espressiva che in modo sempre più radicale ha invaso la musica moderna.

 ?? KEYSTONE ?? Warhol’s"Beethoven
KEYSTONE Warhol’s"Beethoven

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland