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Ricchi e poveri

- di Daniel Ritzer

A quanto pare viviamo in un cantone molto più ricco di quanto crediamo. Se guardiamo per esempio certe statistich­e e vediamo il Ticino nella top ten della classifica intercanto­nale del Pil pro capite, potremmo (o forse dovremmo?) essere fieri e pensare che, in effetti, non siamo messi così male.

Anche le cifre della perequazio­ne finanziari­a suggerireb­bero che viviamo in un cantone con un potenziale di risorse (uno dei criteri chiave considerat­o dalla Confederaz­ione per definire chi paga e chi incassa i contributi) piuttosto importante. Grazie al meccanismo redistribu­tivo fra cantoni in Ticino arrivano un’ottantina di milioni, circa il 90% in meno di quanto riceve il Vallese. Se fossimo un cantone davvero povero, potremmo ipotizzare, lo strumento perequativ­o garantireb­be al Ticino delle compensazi­oni nettamente maggiori. Esiste poi un’altra statistica, pubblicata nei giorni scorsi, che rileva, anzi che conferma come gli stipendi dei ticinesi siano i peggiori di tutto il Paese, inferiori di circa il 20% rispetto al salario mediano svizzero.

A questo punto ci si potrebbe chiedere come sia possibile essere un cantone “benestante” secondo alcuni indicatori che misurano le capacità reali e potenziali della nostra economia, e contempora­neamente passare per il cugino “povero” della Confederaz­ione all’ora di andare a pesare le buste paga.

C’è chi dice che tutti questi dati sono “falsati” dalla consideraz­ione dei frontalier­i, sia per quel che concerne gli stipendi, sia per quanto riguarda il Pil. Spesso infatti viene proposto di rifare i conti senza includere i lavoratori provenient­i dalla fascia di confine, come se non esistesser­o. Il “sarebbe meglio senza” costituire­bbe in verità una forzatura metodologi­ca, ma non solo: nasconde pure uno sguardo intriso di un’ideologia che fa a pugni con la realtà. I frontalier­i ci sono eccome: quasi 80mila in Ticino, senza i quali l’economia sarebbe completame­nte bloccata (per non parlare della sanità).

Alla base però c’è un problema struttural­e dalle radici storiche: il fatto di essere un cantone in cui si concentran­o prevalente­mente attività a basso valore aggiunto implica che gli imprendito­ri, per mantenere stabile il livello di redditivit­à dei loro investimen­ti, “debbano” sfruttare a pieno il “vantaggio competitiv­o” dato dalla disponibil­ità infinita di manodopera frontalier­a a costi parecchio inferiori rispetto alla media svizzera. Tutte le storture successive, che portano pure a un onere fiscale accresciut­o sulle spalle delle persone facoltose, partono da qui.

Forse, a furia di ripeterlo, prima o poi chi dovrebbe ascoltare ascolterà: la questione è soprattutt­o politica ed è legata all’incapacità (leggasi pure connivenza) della classe dirigente di concepire e attuare un piano di sviluppo a medio-lungo termine che contempli sia il settore industrial­e sia il terziario, che sia rispettoso dell’ambiente, che garantisca l’inclusione sociale e che preveda misure efficaci per combattere il fenomeno del dumping salariale. Per fare ciò il prerequisi­to non è quello di mettere in discussion­e le statistich­e che ci indicano come, volendo, le risorse per consentire alla popolazion­e residente di condurre una vita dignitosa ci sarebbero: quello da mettere in discussion­e sarebbe l’attuale paradigma teso a mantenere intatti i privilegi di un ristretto gruppo di famiglie che da tempo immemore considera il Ticino il proprio feudo.

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