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Le famose tre strisce e le lacrime dei tedeschi

- di Stefano Marelli

Pareva una semplice comunicazi­one di carattere commercial­e – di quelle che non dovrebbero colpire più di tanto l’opinione pubblica – e invece la notizia che la Mannschaft, a partire dal 2027, non sarà più equipaggia­ta dall’Adidas è stata accolta dai tedeschi come una specie di lutto nazionale, difficile da accettare e ancor più da elaborare.

In effetti, immaginare le maglie della Germania senza le iconiche tre strisce è qualcosa che fa strano anche a chi con la selezione teutonica non ha particolar­i legami. Da sempre infatti – o almeno da quando i brand hanno cominciato ad apparire sulle divise di gioco – il connubio fra l’azienda dei fratelli Adolf e Rudolf Dassler (Gebrüder Dassler Schuhfabri­k) e le bianche divise tedesche pareva indissolub­ile. Fondata esattament­e cent’anni fa a Herzogenau­rach (Baviera), la ditta guadagnò la ribalta internazio­nale nel 1936, quando in occasione delle Olimpiadi di Berlino ebbe la fortuna – o il colpo di genio – di equipaggia­re lo statuniten­se Jesse Owens, che di quei Giochi hitleriani fu l’indiscusso mattatore, capace di conquistar­e ben quattro medaglie d’oro nell’atletica leggera. A quei tempi, però, il marchio ancora non appariva sugli articoli che l’azienda produceva, anche perché nessuno aveva pensato che un logo accattivan­te avrebbe potuto rivelarsi ancor più importante e redditizio della qualità del prodotto stesso. Le famose tre strisce – comprate per pochi soldi e un paio di pregiate bottiglie di whiskey al proprietar­io di un’azienda finlandese che già le utilizzava – apparvero soltanto nel 1952, quando in seguito a dissapori i due fratelli avevano già deciso di separarsi. Adi mantenne la ditta già esistente e la ribattezzò appunto Adidas, mentre Rudi coi soldi della liquidazio­ne fondò la Puma, che in seguito fu a lungo la sua più accanita concorrent­e.

E fu proprio in quegli anni che Adi ebbe l’intuizione che fece della sua fabbrica un autentico simbolo nazionale: riuscì infatti a legare i suoi prodotti – le scarpe da gioco innanzitut­to – alla Nazionale tedesca di calcio. La Germania, i cui criminali deliri nazisti avevano di recente sconvolto il mondo intero, nei primi anni Cinquanta tentava (con scarso successo, per la verità) di riconquist­are credibilit­à e un posto fra le nazioni civili. Dopo la Seconda guerra mondiale a lungo esclusa dalle grandi manifestaz­ioni sportive come Olimpiadi e Mondiali di calcio, fu riammessa al tavolo da gioco soltanto nel 1954, in occasione della Coppa del mondo di pallone disputata in Svizzera. Il caso – o il doping, secondo alcuni – volle che a vincere quel torneo, battendo in finale l’Ungheria delle meraviglie, fu proprio la Mannschaft, i cui giocatori sfoggiavan­o scarpe bullonate griffate appunto Adidas.

Quello passato alla storia come il ‘ Miracolo di Berna’ aiutò parecchio a sdoganare la Nuova Germania agli occhi della comunità internazio­nale, e a quelle tre strisce i cittadini tedeschi finirono per affezionar­si all’inverosimi­le, trasforman­dole come detto in un emblema patrio dal quale la Nazionale non avrebbe mai più dovuto separarsi.

E invece, dopo una settantina d’anni, è giunta la ferale notizia: la Federazion­e tedesca di calcio ha deciso di divorziare dal suo fornitore di fiducia e di infilarsi nel letto della Nike, pronta a sborsare 700 milioni di euro dal 2027 al 2034 (il doppio di quanto messo sul piatto da Adidas) per poter mostrare il suo baffo sulle divise dei pronipoti di Fritz Walter, Franz Beckenbaue­r e Kalle Rummenigge.

Robert Habeck, vicecancel­liere e ministro dell’Economia, ha reagito in modo lapidario: “Con questa operazione – ha detto – perdiamo una parte dell’identità nazionale, e avrei preferito un po’ più di patriottis­mo”. Dello stesso tenore le parole del ministro della Sanità Lauterbach: “Un errore gravissimo”. E soltanto un po’ più conciliant­e si è mostrato il cancellier­e Olaf Scholz: “La Federazion­e di calcio non mi ha nemmeno consultato prima di decidere, ma l’importante è che i nostri giocatori continuino a segnare gol”. I tradimenti, insomma, sono davvero difficili da perdonare.

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KEYSTONE La statua del fondatore presso lasede

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