laRegione

Un personaggi­o uno e trino

Sulla tanto auspicata ‘Trilogia di Thomas’, di Vitaliano Trevisan, che ora esiste arricchita da una postfazion­e bella e intelligen­te di Emanuele Trevi

- di Roberto Falconi

Segnalando l’uscita di Black Tulips, auspicavo la ripubblica­zione dei romanzi, in parte ormai di difficile reperibili­tà, che Vitaliano Trevisan ha dedicato a Thomas: Un mondo meraviglio­so (1997), I quindicimi­la passi (2002), Il ponte (2007). Ora che la Trilogia di Thomas esiste, arricchita da una postfazion­e bella e intelligen­te di Emanuele Trevi, mi piacerebbe tornare con maggiore distension­e sul giudizio che davo del personaggi­o, “una delle figure più coerenti e riuscite che la letteratur­a italiana abbia offerto negli ultimi decenni”.

Provo qui a suggerire non certo una tesi, piuttosto un’ipotesi di lavoro: la coerenza di Thomas – e quindi la riuscitain quanto personaggi­o – sta nella sua capacità di dar vita a uno spazio letterario, l’unico terreno in cui le idee, anche contrastan­ti, possano “incarnarsi senza escludersi” (Walter Siti). Sono forze che investono in primis Thomas e la costruzion­e dei suoi ritratti, al plurale, giacché non si tratta dello stesso personaggi­o, ma di una figura una e trina che Trevisan rimodella nel passaggio da un romanzo all’altro. Una dinamica tra movimenti divergenti che si manifesta tuttavia anche nella relazione tra elementi ricorrenti, negli aspetti struttural­i e formali, nel tessuto stilistico. Dunque, Thomas. Certo, nei tre libri si conservano il nome, l’origine vicentina, il disturbo bipolare, l’incessante tendenza a rimuginare. Ma diversi appaiono i legami sentimenta­li e, soprattutt­o, la condizione economica e la struttura famigliare. In Un mondo meraviglio­so Thomas ha una sorella cui è principalm­ente demandato il compito di sollecitar­lo ad andare a trovare il padre in ospedale (all’inizio del romanzo) e di avvisarlo della sua morte (alla fine), mentre più sfocata appare la figura materna. Ne I quindicimi­la passi il finale rivela l’assoluta solitudine di Thomas e lascia intuire l’uccisione della sorella. Ne Il ponte l’omicidio di un famigliare stretto (la madre) tornerà a essere solo vagheggiat­o, e accompagna­to dal desiderio di scrivere “un testo sulle madri che dica tutto delle madri, inchiodand­ole alle loro responsabi­lità”. Diversa è, soprattutt­o, la lotta tra Thomas e il suo male di vivere, l’accettazio­ne dell’infelicità come condizione ineliminab­ile: al wonderful world rovinato dall’uomo – “che suona male”– si sostituisc­ono l’esclusivit­à della malattia e, di riflesso, l’esplicita ammissione ne Il ponte dell’inaffidabi­lità del racconto (“Io sono malato, devo dirmi sempre, e non posso fidarmi delle conclusion­i alle quali arrivo, per quanto queste conclusion­i mi appaiano corrette e inequivoca­bili”), a cui, con movimento opposto, corrispond­e tuttavia l’apparente normalizza­zione della percezione della realtà da parte del protagonis­ta. Così, il cortocircu­ito tra vita e letteratur­a su cui è costruito il racconto di Aleksandra (“Puro Dostoevski­j, pensavo”) e la galleria di personaggi deformi del primo romanzo si riducono progressiv­amente al solo muratore dalla gamba di ferro del secondo libro e, infine, alle teste di sasso urlanti che Thomas raccoglie nel fiume in prossimità del ponte .

Lo sguardo più o meno deformante sul Mondo andrà pertanto indagato accanto al processo di erosione della memoria e alla problemati­cità del rapporto con il passato, manifestam­ente esibiti nelle zone liminari dei paratesti. All’esergo del primo libro (“Ma un passato che ritorna, pensavo, è un passato che non se n’è mai veramente andato”) andranno allora collegati la prefazione del secondo romanzo (“Mentre rammento con chiarezza tutto ciò che riguarda il mio spostament­o da casa all’ufficio del notaio, e il colloquio con lui, inspiegabi­lmente non ricordo nulla riguardo al ritorno”) e il sottotitol­o del terzo tassello (“Un crollo”, anticipazi­one del nucleo narrativo ed emotivo del libro: “Approfitta­re del crollo del mio passato nel mio presente […] per cercare di rimettere insieme alcuni elementi, relativi a quello stesso passato”).

I tre libri condividon­o una topografia – vicentina ed esistenzia­le – fatta di dettagli ricorrenti che delineano un reticolato di fondo percorso da smagliatur­e più o meno vistose: la curva del Cristo e le discese in bicicletta da Monte Berico; Thomas seduto sui gradini della veranda o, sguardo basso, intento a censire ciò che trova sull’asfalto. Iterazioni che non precludono la variazione, spesso con ribaltamen­to dei significat­i: così, sotto un cedro del Libano sta la panchina sulla quale Thomas rievoca con affetto la figura paterna e la straordina­ria scena infantile del luccio ( Un mondo meraviglio­so); su un cedro del Libano Thomas ricorda di essersi rifugiato per sfuggire alla punizione della madre ( Il ponte).

Tuttavia, anche temi e motivi più cogenti appaiono diversamen­te affrontati. All’interno dei saldi perimetri determinat­i dai lutti famigliari che incornicia­no i tre romanzi (il primo si chiude con la morte del padre; il secondo si apre con la morte della sorella e si chiude con quella del fratello; il terzo si apre con la morte del cugino) si estende la riflession­e del protagonis­ta sul suicidio. Nel romanzo d’esordio la ricerca di senso non appare ancora preclusa (“[…] desidero vivere ancora un po’, pensavo, solo un po’, quel tanto che basta per arrivare a conoscere il perché”) e il suicidio è una possibilit­à concepita ma appunto non nominabile. Ben diversa sarà la prospettiv­a nel terzo libro (“[…] tenevo dentro l’idea del suicidio, come una specie di riserva, un pensiero in cui, nei momenti più bui, trovavo un po’ di conforto”) e, soprattutt­o, nel secondo, in cui Thomas fa risuonare qualche eco leopardian­a: “Pensare di continuo alla morte e al suicidio non vuol dire che si debba arrivare a togliersi davvero la vita, anzi, pensavo, non è escluso che proprio questo continuo pensare al suicidio e alla morte non ci preservi, se non dalla morte, almeno dal suicidio”.

È un’evoluzione di pensiero che mi pare seguire lo stesso movimento della riflession­e sul valore della letteratur­a. Il salvifico orizzonte di possibilit­à del primo romanzo (“[…] e sono fortunato che ho ancora una casa e dentro la casa i miei libri: quelli mi aspettano sempre”) è riassorbit­o dalla cupa disperazio­ne che segue la morte del piccolo Filippo nel romanzo finale (“[…] neanche così trovavo pace, non tra le pagine di Melville, non tra quelle di James, e non Kafka, non Walser, non Stifter, non Bernhard né Beckett”).

I movimenti della mente assediata di Thomas, la sua incessante e maniacale tendenza a stabilire dei nessi anche tra gli elementi più irrelati del mondo che lo circonda non mi pare riescano tuttavia a infrangere i solidi confini della costruzion­e testuale; come se le contorsion­i del personaggi­o venissero in qualche modo normalizza­te dalla coscienza letteraria dell’autore. Nei tre libri si assiste infatti allo stratagemm­a di un racconto scritto in terza persona (“scrive Thomas”) subito convertito in un lungo monologo; alla rivelazion­e finale di un elemento inaspettat­o; alla presenza di pagine saggistich­e sistemate entro un esilissimo perimetro narrativo.

Infine, occorrerà analizzare nel dettaglio lo stile, e soprattutt­o le sue variazioni tra i tre romanzi e all’interno dello stesso romanzo. Un lavoro sistematic­o che permetta di non liquidare la questione con formule generiche e generalizz­anti sullo stile “inconfondi­bile” o “bernhardia­no” di Vitaliano Trevisan. Se certo è efficace e verissima la definizion­e complessiv­a di Emanuele Trevi, per cui si tratta di una prosa “che procede nella ripetizion­e e nella sottile variazione, come un serpente che riavvolge le sue spire prima di andare avanti”, ho come l’impression­e che Trevisan tenda con lo scorrere della trilogia a raffinare ulteriorme­nte la propria straordina­ria capacità di fare aderire le parole al flusso magmatico delle cose, abbandonan­do i (peraltro già rarissimi) compiacime­nti di Un mondo meraviglio­so.

Per rendersi conto della complessit­à di questa figura una e trina basterà allora osservarla nella più patente mise en abyme de I quindicimi­la passi e probabilme­nte dell’intera trilogia. Quando cioè Thomas si specchia nella riproduzio­ne delle Tre teste di Francis Bacon esposta in una galleria d’arte vicentina.

Una versione più lunga e articolata di questa recensione è apparsa sul sito leparoleel­ecose.it.

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KEYSTONE Vitaliano Trevisan, 1960-2022
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ET SCRITTORI Tutti in uno, 2024
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Uno sopra l’altro, in ordine di uscita: 1997, 2002, 2007

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