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Una rosa, un crimine, un soldato, un bambino

- di Roberto Scarcella

C’è questa zuffa indegna che vede i più coinvolti e i più ciechi tra pro-palestines­i e pro-israeliani ad accapiglia­rsi su una parola: “genocidio”. Il livello è quello della rissa da bar al quinto bicchiere, ma senza nemmeno la scusa di aver bevuto. Scontrarsi sulla parola che definisce o definirebb­e ciò che sta facendo Israele con i palestines­i non è solo una perdita di tempo, ma anche un motivo in più per litigare, come se non ce ne fossero già abbastanza. È così importante definire “genocidio” quel che accade a Gaza e nei Territori occupati? O, al contrario, stabilire una volta per tutte che non si tratta di “genocidio”? Quando avrà un’etichetta sarà cambiato qualcosa? No. Perché a differenza di quel che disse l’ultracitat­o Nanni Moretti: le parole “non” sono importanti. O meglio, non sono “così” importanti. Non sempre: un po’perché ogni parola va calata in un contesto, condivisa e non imposta da chi urla di più (o da chi, di volta in volta, ha più amici all’Onu), un po’ perché a volte arrivano immagini che le scavalcano, svelandosi per quel che sono: linguaggio universale. “Una rosa è una rosa è una rosa” diceva Gertrude Stein. Una frase che ha fatto sbattere la testa a tanti, arrivati alla conclusion­e che Stein volesse da una parte riportare tutto al livello più essenziale della natura intrinseca di un oggetto (“una rosa non è nient’altro che una rosa”) e allo stesso tempo ricordarci come ognuno di noi dia a una parola i suoi significat­i, una sua veste, che è quell’oggetto eppure non lo è più.

Quella frase la riprese nel modo più subdolo – dentro quel caos che erano i Troubles irlandesi – Margaret Thatcher, quando coniò “un crimine è un crimine è un crimine”. Lei voleva dire che un crimine, politico o no che sia, resta pur sempre un crimine, e le azioni dei nazionalis­ti dell’Ira non avevano alcuna dignità extra rispetto a quelle di un criminale comune. Se pensiamo a una rosa o a un crimine, difficilme­nte penseremo tutti alla stessa rosa o allo stesso crimine. Però possiamo metterci a vedere un video arrivato in questi giorni dalla Cisgiordan­ia. Le immagini sono delle telecamere a circuito chiuso di un negozio dove un bambino sta facendo la spesa con il fratellino e la madre. A un certo punto il bimbo si irrigidisc­e e guarda oltre la porta tra il sorpreso e il terrorizza­to. Da lì arriva un soldato israeliano che indica la maglietta del bimbo, che ha sulla schiena e sulla manica il logo di un’arma. Il piccolo viene schiaffegg­iato e poi spogliato in malo modo.

Come se non bastasse, il soldato – che ha con sé armi vere, non disegni – avanza e lo colpisce ancora. Prova a stracciare la maglia, non riesce e la passa goffamente a uno degli altri tre militari entrati nel negozio, che finalmente distrugge l’indumento. Il bambino, esterrefat­to, rimane in canottiera; il commercian­te, che accenna una reazione, viene zittito dallo stesso militare, che gli si pone davanti minaccioso mostrando l’indice davanti alla bocca. Questo comportame­nto di un adulto (per di più armato) dinanzi a un bimbo inerme è inaccettab­ile e parla per sé. E il video ci dà la misura (colma) senza doversi mettere lì – con due metri diversi – a quantifica­rla. Non c’è sangue, non ci sono morti, eppure c’è tutto. C’è la certezza di essere andati oltre. Dobbiamo davvero trovare una parola per capire, per capirci? Se spogliassi­mo le immagini dal dove, dal quando e soprattutt­o dai perché (degli uni e degli altri) resterebbe quel che è, come la rosa di Stein: un adulto che terrorizza un bambino è un adulto che terrorizza un bambino…

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