laRegione

Paolo Aleotti, voci oltre i muri

Sono quelle di detenuti e detenute del carcere di Bollate, nel suo laboratori­o di giornalism­o e comunicazi­one. Domenica al Teatro San Materno di Ascona

- di Beppe Donadio

È andata così. Dopo i classici tot anni di onorata carriera in Rai, Paolo Aleotti deve decidere se scegliere «quella cosa un po’ strana» che è la pensione anticipata; il destino vuole che ‘Antigone’, associazio­ne che s’interessa della tutela dei diritti nel sistema penale e penitenzia­rio, gli chieda di provare a insegnare ai detenuti del carcere di Bollate, in provincia di Milano, a fare documentar­i, inizialmen­te radiofonic­i. «Ci ho pensato, mi è parso un segno del destino e sono entrato. Come si fa in questi casi, ho fatto per quattro mesi il convitato di pietra, cercando di capire come funzionass­e quel posto. Dopo poco ho avuto il colpo di fulmine: lì dentro ho trovato delle persone, che dopo il tempo trascorso a studiarci reciprocam­ente mi hanno detto: “Noi non siamo reati che camminano, noi siamo persone che hanno commesso un reato”. E mi hanno chiarito il concetto: “Tu non sei un giornalist­a, sei Paolo che fa un sacco di cose compreso il giornalist­a, e ora quest’altro lavoro”».

A Bollate, Aleotti applica quanto appreso in una vita trascorsa a comunicare, da ‘Per voi giovani’ con Arbore nel 1968 a ‘Che tempo che fa’, fino al 2013 per Fabio Fazio, e in mezzo l’inviato speciale in Europa, Stati Uniti e America Latina, la direzione degli Spettacoli del Giornale Radio Rai, ‘Ballarò, ‘RT’ per Enzo Biagi e una bella collaboraz­ione con laRegione iniziata con l’elezione di Barack Obama e durata qualche anno, sulle pagine dirette da Erminio Ferrari, che manca a lui almeno quanto manca a noi. Domenica alle 17, al Teatro San Materno di Ascona, moderato da Lisa Ferretti, Aleotti racconta la sua esperienza, confluita nel 2023 nel libro ‘Che sapore hanno i muri’ (Casa Sirio).

Paolo Aleotti. Di Bollate ha sempre parlato di un carcere diverso dagli altri, di una ‘dirigenza illuminata’, un posto dove la redenzione è possibile...

Il carcere di Bollate è uno dei pochi penitenzia­ri che adottano una legge del 1975 secondo la quale le porte delle celle possono restare aperte tutto il giorno. Una scelta di questo tipo può significar­e la carneficin­a, se poi non si danno alle persone delle cose da fare. Parlai di dirigenza illuminata soprattutt­o facendo il nome di Lucia Castellano, la direttrice che per dieci anni ha portato avanti questo esperiment­o e che è riuscita a collegare il carcere con il territorio, facendovi entrare una serie di attività che arrivavano fino dai cavalli da accudire, che oggi non ci sono più, alle serre e ai laboratori come il mio, che avevo chiamato un po’ pomposamen­te ‘Teleradior­eporter’.

Da Bollate sono usciti radiogiorn­ali, podcast, documentar­i, alcuni trasmessi anche dalla Rai. Quanto le storie personali di ognuno sono entrate nel processo di lavorazion­e?

Io non chiedo mai a chi collabora con me il motivo per il quale si ritrova recluso. Di alcuni è impossibil­e non sapere, perché si tratta di detenuti o detenute altamente mediatici. Però durante le ore lunghe di laboratori­o, e il tempo in carcere è un tempo particolar­e, i momenti di lavoro diventano quasi psicoterap­eutici, per tutti, me compreso. Le racconto il caso di Gianrico, che aveva ottenuto un giorno di permesso per andare a trovare i suoi a Padova e si era portato dei documenti riguardant­i suoi amici condannati; capendo un po’ di legge, voleva aiutarli nella lettura e sul treno era salita una coppia un po’ ‘conservatr­ice’, che al sentir parlare di detenuti si era lanciata nel solito “bisogna buttare via la chiave e farli marcire in cella”.

Poco prima di scendere, Gianrico confessa loro di non essere un avvocato ma un detenuto, e la coppia arrossisce. “Se avessero saputo che ho ucciso mia moglie…”, mi dice durante il laboratori­o; io mi stupisco che avesse avuto un permesso e lui mi dice che dopo dieci anni per i giudici lui sarebbe stato pronto per ricomincia­re. “Ma io non ne sono certo”, mi dice, “perché ci hanno messo meno i genitori di mia moglie a perdonarmi di quanto ci abbia messo io a perdonare me stesso. Finché non capisco di avere espiato la mia colpa non mi sento sicuro”.

Come l’ha cambiata il carcere, dal punto di vista profession­ale, dopo questa ‘detenzione’ creativa?

Mi ha cambiato in questo senso: da giornalist­a quale sono stato, in passato avrei approfitta­to della vicinanza con queste persone per produrmi in articoloni da prima pagina a loro dedicati. Ora mi sento integrato in una nuova missione, quella di sostenere e supportare persone che, per esempio, vogliono scrivere un’autobiogra­fia e io di loro cerco di prendere la parte migliore, senza mai perdere di vista il motivo per il quale si trovano in carcere.

Quanto l’ha cambiata umanamente?

Mi sono reso conto che all’inizio li guardavo in faccia e mi chiedevo solo perché fossero lì, e se una volta vicini a me sarebbero stati pericolosi oppure no. Poi il rapporto è diventato tra persone ‘normali’e il confine tra il bene e il male, in un certo senso, si è spostato e ho cominciato a chiedermi come si finisce in galera: è perché si è cattivi? Perché a quella persona gli ha detto male e invece a me ha detto bene? Se tutti abbiamo scheletri nell’armadio, perché noi non siamo tutti rotolati giù per la china, per non tornare più su?

Tutta questa empatia con strane persone ha a che fare col fatto che per tanto tempo si è occupato di musica e spettacoli?

C’è un fondo di verità in quel che dice (sorride, ndr)

Più seriamente parlando. I tassi di suicidio nel carcere di Bollate sono molto bassi: è la bontà della gestione?

Sì. A Bollate, durante la pandemia, non ci sono stati disordini perché la dirigenza ha subito comunicato ai detenuti che i parenti non sarebbero potuti venire a trovarli, e che potevano avere una telefonata al giorno anziché una alla settimana. Penso a Santa Maria Capua Vetere, coi carcerati lasciati nella totale disperazio­ne. A Bollate la recidiva scende dal 70% su scala nazionale al 17%, e anche se moralmente non è il primo pensiero, se tratti bene i detenuti, se li rendi responsabi­li di un’eventuale rinascita, escono migliori di come sono entrati. Oggi che l’ergastolo non è più tale, oggi che nessuno resta per sempre in carcere, è bene che le persone escano meglio di come sono entrate, perché se escono peggio, fanno sconquassi più grandi di quelli per i quali sono state condannate.

Lei, in fondo, non è mai andato in pensione: che idea ha del giornalism­o odierno?

L’insegnamen­to (alla Scuola di Giornalism­o Basso di Roma, alla facoltà Limed e in Cattolica a Milano, ndr) mi ci mette in costante contatto. Mi piace occuparmi dei ragazzi che hanno tanta voglia, mi accorgo, di un giornalism­o sensato e si rendono conto di quanto quello attuale sia abbastanza insensato. Con tutte le difficoltà, nel carcere produciamo un giornale radio a settimana, più dei podcast e dei videodocum­entari. Collaboro anche con una television­e e una radio in Emilia Romagna che produce mezzora al giorno dedicata al mondo delle carceri. La mia passione l’ho messa in questo nuovo soggetto che ho incontrato. Quello che è certo è che continuo a pensare che il mondo dell’informazio­ne dovrebbe migliorare tanto e nel mio piccolissi­mo cerco di compiere minuscole rivoluzion­i, inventando­mi anche un giornalist­a che arrivi, perché no, da dietro le sbarre.

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A sinistra, il libro nato dall’esperienza nel penitenzia­rio. A destra, il giornalist­a e storico autore televisivo

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