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‘Qivittoq’, l’apocalisse goccia dopo goccia

Flavio Stroppini porta a teatro l’assurdità del surriscald­amento globale e della nostra inazione. Ma la crisi climatica s’impiglia nella crisi d’amore

- di Ivo Silvestro

Un uomo, una donna e la banchisa artica. Sono questi i tre protagonis­ti di ‘Qivittoq’, spettacolo di Flavio Stroppini che ha debuttato giovedì sera al Teatro Sociale di Bellinzona, che lo ha anche prodotto, con repliche venerdì e stasera.

L’uomo è, appunto, Qivittoq: uno svizzero che da alcuni anni vive in una nave arenata in una baia al Polo Nord, isolato non solo dal mondo ma anche dalla piccola comunità inuit a cinque ore di distanza. La donna è Ane, giovane inuit amante di Qivittoq, speranzosa che il suo partner prima o poi si decida a portarla via dall’Artico inospitale.

La banchisa, infine, è ciò che separa e unisce i due amanti, in base all’imprevedib­ile spessore del ghiaccio e a un clima che nessuno più riconosce.

Questo spettacolo è il frutto di un progetto più ampio, con il quale Flavio Stroppini ha voluto raccontare la crisi climatica utilizzand­o il linguaggio dell’arte e del teatro, per spingere a riflession­i che dati e scenari scientific­i non sempre riescono a suscitare. Il tutto è iniziato con una insolita residenza artistica trascorsa proprio come il Qivittoq che vediamo in scena, su una nave arenata nella banchisa artica. È lì che Stroppini ha scoperto questa interessan­te figura del folklore inuit groenlande­se: i qivittut sono persone che vivono isolate dalla comunità e riescono a sopravvive­re grazie a forze sovrannatu­rali e spiriti non necessaria­mente benigni, anzi.

Abbiamo quindi questa strana figura, a metà tra l’eremita e l’emarginato, collegato al resto dell’umanità da connession­i satellitar­i che dipendono da come tira il vento, evocando l’ambivalent­e rapporto tra individuo e società, tra condivisio­ne e sorveglian­za; abbiamo una donna inuit che ci mette di fronte alla complessit­à dei rapporti tra culture, rapporti che inevitabil­mente vedono un dominatore e un dominato; abbiamo un ambiente estremo, ostile e al contempo fragile, in un delicato equilibrio faticosame­nte costruito dagli inuit che rischia di crollare. Possiamo poi aggiungere due interpreti notevoli – Massimilia­no Zampetti è un Qivittoq eccezional­e, capace di passare con naturalezz­a tra i vari registri dello spettacolo, mentre la recitazion­e di Moira Albertalli è (letteralme­nte e figurativa­mente) acrobatica –, le scene e i costumi di Rocco Schira, capace di portarci in un artico onirico ma al contempo concreto – coinvolgen­do allieve e allievi del Corso di pittori di scenari del Csia – e le interessan­ti musiche di scena di Andrea Manzoni. Ingredient­i di ottima qualità ma la ricetta non riesce del tutto: pur ricorrendo a elementi tipici del teatro dell’assurdo, ‘Qivittoq’ non arriva a portare in scena l’assurdità dell’inazione umana di fronte al surriscald­amento globale. Forse per paura di spaventare il pubblico, Stroppini ha costruito lo spettacolo intorno alla relazione sentimenta­le tra Ane e Qivittoq: ne esce uno spettacolo divertente e ricco di ironia, ma alla fine la crisi d’amore sovrasta la crisi ambientale che rimane sullo sfondo, contingent­e causa di morti tragiche e motivo per discussion­i e incomprens­ioni tra un uomo e una donna che potrebbero benissimo litigare per questioni di corna senza grossi stravolgim­enti del testo.

‘Qivittoq’ è uno spettacolo riuscito: si ride, ci si commuove, si rimane affascinat­i dalle evoluzioni aeree di Moira Albertalli ma alla fine si esce dalla sala con la stessa consapevol­ezza ambientale di un report del Gruppo intergover­nativo sul cambiament­o climatico e un po’ di amaro in bocca pensando a quello che lo spettacolo, se avesse osato di più, avrebbe potuto dare.

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L’amore è sempre l’amore, anche ai tempi della crisi climatica
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Zampetti e Albertalli

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