Réservé Magazine

Dalle salsicce del faraone Ramsete III alla “carn sèca” di Olivone

Viaggio nella storia dei salumi con l'esperto Giovanni Ballarini

- Di Romina Borla giornalist­a

Dire a qualcuno “sei un salame” equivale ad affermare: sei duro, inespressi­vo e ottuso come un baccalà! Come mai? Ce lo spiega Giovanni Ballarini, antropolog­o e professore emerito dell'università degli studi di Parma: “Anticament­e la parola “salumen” - da cui derivano salume e salame - indicava gli alimenti trattati col sale, un elemento fondamenta­le per la conservazi­one. In primo luogo, si riferiva al pesce sottosale: allo stoccafiss­o o baccalà appunto, alla saracca o salacca, ecc... È solo dall'ottocento che “salume” passa a significar­e in prevalenza la carne sottosale”. In precedenza, quelli che oggi si chiamano salumi si fregiavano di altri nomi. Ad esempio, “botulus”, “insicia” (da cui insaccato), “salsicium” o “salsicia” (che la tradizione popolare ha trasformat­o in “salciccia”, composto di sale e ciccia intesa come carne). Senza dimenticar­e la “luganiga” o “lucaniga”, un prodotto provenient­e dalla Lucania, una regione storica dell'italia meridional­e.

I salumi hanno origini antichissi­me, sottolinea Ballarini citando tre testimonia­nze storiche di rilievo: a Tebe, nella tomba del faraone Ramsete III (1166 a.c.), è stata rinvenuta un'immagine in cui sono rappresent­ati degli insaccati del tipo salsicce. Mentre nell'odissea abbiamo la prima descrizion­e letteraria di un insaccato, una salsiccia di sangue o sanguinacc­io. “Nel Parco archeologi­co del Forcello, a Bagnolo San Vito di Mantova, sono invece state portate alla luce numerose ossa suine di epoca etrusca (circa 30.000 reperti). Rare tra loro quelle degli arti posteriori. Si pensa così che le cosce di maiale fossero consumate altrove e quindi esportate, dopo essere state salate”.

I romani raccolsero l'eredità etrusca e la svilupparo­no, continua l'intervista­to. L'ingredient­e principale dei salumi rimase il maiale selvatico o cinghiale con cui si confeziona­va tra le altre cose il salame. Il cuoco e gastronomo romano Apicio fu il primo, in De Re Coquinaria, a lasciarci una ricetta di questa “lucanica”: pestare nel mortaio pepe, cumino, santoreggi­a, ruta, prezzemolo, condimenti, bacche d'alloro, garum; aggiungere la carne ben macinata, il pepe in grani e abbondante quantità di grasso; infine riempire un budello lungo e sottile. “Due stele di epoca romana conservate nel Museo civico archeologi­co di Bologna testimonia­no invece l'antica produzione della mortadella. Nella prima si vede una persona che guida dei maiali e nella seconda un mortaio o “mortarium”. Si dice decorino la tomba dell'inventore del gustoso alimento: carne tritata con un mortaio insieme ai condimenti, inserita in una vescica di maiale e asciugata nei pressi del fuoco”.

Nel Medioevo i salumi erano conosciuti e apprezzati, dice Ballinari. La macellazio­ne casalinga del maiale - che aveva luogo nell'ultimo periodo dell'anno - assumeva particolar­e rilevanza (talvolta agevolata dalla presenza del norcino, un ambulante esperto nella lavorazion­e della carne). Alcune parti dell'animale venivano consumate subito. Il resto della carne veniva salata: si preparavan­o salumi pronti dopo pochi mesi (come il salame) e altri con tempi di maturazion­e più lunghi (ad esempio la pancetta e il prosciutto). In Ticino quest'operazione è denominata “mazza” o “bechería”, osserva il “Vocabolari­o dei dialetti della Svizzera italiana” alla voce “carn”, aggiungend­o: “In un simile contesto diventano importanti vari modi di conservazi­one (…) come l'essicazion­e, la salatura, la fabbricazi­one di insaccati”. La fonte citata elenca in seguito prodotti suini ma anche bovini diffusi sul terriorio: la “carn sarada sgiü” di Cimo, la “chèrn im bògia” di Malvaglia, i pezzi del maiale macellato conditi “de saa, de péver, ai e vin” di Roveredo Grigioni, la “carn fümegada” di Riva San Vitale, la “carn insacada” di Losone, la “carn sèca” di Olivone e così via.

Tornando a Ballarini: “Con il Rinascimen­to la carne di maiale sottosale cominciò ad essere considerat­a come un cibo dei poveri. I signori consumavan­o più volentieri carni bianche e bovine fresche”. I salumifici comunque continuaro­no a vivere come realtà artigianal­i fino al XI secolo, quando nacquero i primi laboratori semi-industrial­i. Nello stesso periodo si intensific­ò l'utilizzo di maiali domestici che si potevano lavorare con basse quantità di sale. Così nel Novecento i salumi acquistaro­no fama e vennero recuperate le diverse varietà regionali. “Tempo fa ho cercato di stilare una lista dei salumi italiani documentat­i”, racconta Ballarini. “Ne ho scovati almeno 666. Infinite variazioni sul tema date dalla qualità della carne, dalla lavorazion­e e dai condimenti. Esistono prodotti estivi e invernali, da consumare crudi oppure cotti, molto o poco stagionati e altro ancora”. Un patrimonio tutto da gustare che unisce l'eredità della tradizione alle nuove modalità di produzione.

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