Corriere della Sera - La Lettura
Nella fabbrica occupata dagli ultimi operai
Alle porte di Milano si produceva tecnologia per industrie elettriche e nucleari. In due mesi è finito tutto
Di ego Tartari lo incontro all’uscita della metropolitana di Sesto Marelli: è uno piccolo di statura dal fare determinato, barba scura da scrittore russo, il berretto di lana e un anello d’argento infilato su uno zigomo. Con lui c’è Stefano Pavan, un ragazzone alto e spiritoso dal viso roseo, berretto scuro e giubbetto nero in pelle da rocker.
Quando Diego parla, si sente che la cadenza marchigiana è impastata con quella lombarda, anche se il gergo d’origine ancora prevale, perché da Appignano è partito una quindicina d’anni fa per raggiungere qui al Nord la sua compagna, e da dieci è entrato in fabbrica in reparto qualità: «Faccio controlli dimensionali ma anche distruttivi e non distruttivi», mi spiega criptico mentre c’incamminiamo su via Edison, che nella fattispecie significa fare analisi con metodi che cercano il difetto nel generatore a turbine. Ai lati dello stradone un’architettura complessa e stratificata, palazzi ultramoderni e case operaie di Sesto San Giovanni dagli intonaci ocra, le grandi vetrate dell’NH hotel e il palazzone della Wind aggredito al pianterreno dalle erbacce, ciò che resta di quella che era soprannominata la Stalingrado italiana. Diego è uno dei 140 operai licenziati dalla General Electric, la multinazionale americana leader nel settore delle centrali che ha acquisito la francese Alstom Power (e dopo due mesi ha annunciato 6.500 esuberi in Europa e la chiusura di questo sito motivandoli con il calo della domanda di turbine a gas), quella che una volta, ai tempi dell’età dell’oro dell’industria nella piccola Manchester lombarda si chiamava Ercole Marelli. Qui le imprese nel loro momento di massimo splendore occupavano duecentomila lavoratori negli stabilimenti Ansaldo, Falck, Breda e Pirelli.
Diego è arrivato alle sei per il cambio del turno. «Teniamo tutti fuori, non facciamo entrare nessuno, presidiamo impianti e macchinari e abbiamo preso in ostaggio un rotore, perché è l’ultimo lavoro che stavamo facendo, doveva finire a Zouk, in Libano», dice orgo- glioso (il rotore è un organo rotante, componente fondamentale — insieme allo statore che è fisso — di un generatore). «La sorpresa più grande è stata il 27 settembre, il giorno dell’occupazione, per tre notti siamo stati dentro tutti, perché avevamo paura che ci sgomberavano». Dice che alcuni si erano portati il letto da casa, c’era chi era arrivato con le coperte, il cuscino e le lenzuola. Sul lato ovest ognuno s’era preso l’ufficio di un dirigente, aveva piazzato il materasso sulla scrivania.
Davanti ai cancelli le bandiere del sindacato e uno striscione azzurro, di lato la postazione del custode, che segna sospettoso su una cartellina i nomi di chi entra. «Se noi occupavamo anche la guardiola, i sorveglianti li avrebbero licenziati, ma non ha senso mettersi lavoratori contro lavoratori che non c ’entrano niente».
Dopo ci incamminiamo lungo un viale, al centro le rotaie, che porta dritto ai padiglioni della fabbrica: in fondo svetta quello che chiama «il fungo», la torre che raccoglie e convoglia le acque piovane — più in alto nel cielo volano gli aerei che decollano dall’aeroporto di Linate.
All’ingresso di uno degli stabilimenti c’è il manichino impagliato di una tuta blu, altri due sono caduti in terra sul piccolo rettangolo di verde adiacente, abbattuti dal vento. Sono stati creati dall’operaio-artista Francesco Bisceglia. «Li hanno chiamati “spaventa guardie”, messi qui provocatoriamente, perché la prima settimana di assemblea permanente i vigilantes mandati dall’azienda sorvegliavano notte e giorno — racconta Diego — gente che adesso lavora nei locali notturni di Milano». Erano una decina e stavano lungo tutto il perimetro. «Poi quando abbiamo occupato, li abbiamo messi fuori».
Su un lato del padiglione 4B, i lavoratori licenziati si sono ritagliati una piccola isola protetta dal cellophane, dove la notte dormono in letti a castello costruiti con strutture di tubi in- nocenti, o su divani che hanno portato da fuori in segno di solidarietà. Dentro hanno piazzato due termoconvettori e una piccola stufa per riscaldarsi, il tavolo lungo, e dietro il banco della cucina, con un fornelletto elettrico, gli scaffali con i pacchi di pasta e lo scatolame. Nella parte opposta, invece, il grande schermo tv e due quadri di nature morte appesi alla parete; in alto un ritratto di Marilyn Monroe.
Quando arrivo — giovedì 19 gennaio — è il centoquindicesimo giorno che stanno qui, notte e giorno, e la stanchezza comincia a sentirsi. Molti di loro hanno disturbi del sonno, lo stato di tensione e d’attesa è snervante, e più il tempo passa senza risposte, più l’ansia divora. Sono parte di un ceto operaio senza partito e senza ideologia, quello che resiste quasi per coazione a ripetere della civiltà industriale spazzata via dalle delocalizzazioni globali, a difendere in nome della dignità la qualità del proprio lavoro in uno stabilimento molto tecnologico, dove si trova una delle tre camere blindate presenti in Italia per bilanciare i rotori (qui si lavorava principalmente per generatori di centrali a ciclo combinato, che bruciano gas e olii, e generatori di centrali nucleari. Fino al 2010 anche per generatori di centrali idroelettriche). Alcuni operai sono stranieri, marocchini, moldavi, croati, lavoratori egiziani, della Mauritania e Costa d’Avorio, c’è persino un cinese, Aiguang Zhang, monoreddito con quattro figli a carico tutti quanti studenti e nati in Italia.
Diego ha caricato la moka mettendola a scaldare sul fornelletto, mentre Stefano mi spiega che il loro obiettivo — ultimo stipendio percepito a novembre, stipendio medio di 1.500 euro — è trovare una nuova proprietà, «a General Electric non interessa più continuare questo tipo di produzione, vuole tenere aperte solo le fabbriche in Polonia, Romania e Inghilterra». Qui si producono generatori di alta qualità per le centrali, pezzi unici con un’attività quasi esclusivamente manuale, il vecchio e sapiente lavoro metalmeccanico, un patrimonio del lavoro italiano che stanno difendendo prima ancora che il posto. Secondo