Corriere della Sera - La Lettura
Il grande romanziere? Un saggista impazzito
Ormai da tempo ho a noia la critica universitaria: mi sembra un dotto esercizio per discettare con sussiego di ciò che non si è soliti praticare e si conosce per sentito dire. Invece ho un debole per gli scrittori che scrivono di scrittori
Ho incontrato Alberto Arbasino una manciata di volte in tutto: a un premio in Versilia parecchi anni fa, a una première di qualche cosa non così memorabile se non la ricordo più, al funerale laico di un caro e comune amico. Durante la cerimonia funebre mi chiese come mai il giovane commosso scrittore sul palco si ostinasse a interrompere l’orazione con piccoli sorsi da una bottiglietta di plastica di acqua Panna: «Perché non usa un bicchiere?».
In seguito avrei avuto la ventura di intervistarlo per questo stesso giornale in occasione dell’uscita del suo secondo Meridiano. Che esperienza vertiginosa. Non mi è più capitato di rivolgere a un interlocutore domande tanto inappropriate e di ricevere risposte così cortesemente elusive. Capii allora che il bleso balbettio di Arbasino (così prossimo alla prosa ellittica, scandita da punti sospensivi e vezzeggiativi di chiara marca gaddiana) è funzionale all’esigenza di schivare qualsiasi pettegola questione personale, liquidando con un’alzata di spalle ogni indugio su massimi sistemi vacui e pretenziosi. Si sa, la conversazione di Arbasino funziona per accumulazione e per analogie imprevedibili. Tutto in me diventa allegoria, scriveva Baudelaire. Non altrettanto potrebbe dire Arbasino. L’allegoria presuppone un salto verso l’alto, e per antifrasi uno scavo in profondità. Arbasino aborrisce sia l’alto che il profondo. Per un mix di attitudini (pudicizia, sprezzatura, autoironia, buona educazione e snobismo) ha eletto le superfici a terreno d’indagine. È quello il suo regno, il campo di battaglia, ma non al modo caro ai decadenti praziani, ma a quello di certi moralisti alla SaintSimon in cui i gesti valgono più dei pensieri e il modo di vestire assai più dei sentimenti. Nel mondo di Arbasino l’abito fa sempre il monaco, e d’altronde il nudo è stato abolito. A dispetto delle apparenze, Arbasino non ha mai atteggiamenti egotisti, tipo Carmelo Bene o Aldo Busi. Fa un uso parco, e del tutto funzionale, della prima persona singolare, preferendo, se proprio deve, una prima persona plurale quasi accademica, o ricorrendo a formule impersonali, alla francese: «Ce lo si domandava», «Si aveva per cena», «Si stava proprio pensando».
È tedioso e fuorviante psicoanalizzare gli scrittori ma vi confesso che se qualcuno mi chiedesse di scegliere tra due buste chiuse — una contenente il nome dell’assassino di Kennedy e l’altra l’insondabile mistero dell’interiorità arbasiniana —, indugerei come Amleto.
Dopo tanti anni che la compulso e la pratico (vado per i quarantacinque) la critica cosiddetta universitaria mi è venuta a noia. Nel migliore dei casi mi sembra un dottissimo esercizio onanistico nel quale si discetta con sussiego in modo fin troppo dettagliato di ciò che non si è soliti praticare, e si conosce per sentito dire. Mentre ho un debole per gli scrittori che scrivono di scrittori. Percepisco subito l’onestà di chi è implicato, la complicità di chi è parte in causa. Forse anche per questo trovo sempre delizioso e folgorante Arbasino che scrive di altri scrittori (assai più utile che intervistarlo).
Questi Ritratti e immagini poi (che seguono gli altrettanto mirabili L’ingegnere in blu e Ritratti italiani) sono un pasto pantagruelico in cui la causerie letteraria, storico-artistica, musicologica, moralistica e mondana dà un godimento unico, a tratti entusiasmante, talvolta incomprensibile (almeno per un lettore come me, con tutta evidenza non abbastanza colto e informato). È qui che il «credo artistico» arbasiniano (temo che all’interessato spiacerebbe tale locuzione, ma fa lo stesso) rivela una coerenza stupefacente, almeno per uno scrittore italiano: tanto più se si tiene conto che di norma l’uomo di lettere nostrano è trasformista e modaiolo, soprattutto quando finge di essere intransigente e quando elargisce ex cathedra lezioni di civismo democratico ai suoi compatrioti. Arbasino non ha niente da insegnare e non tradisce mai se stesso. Le sue buone maniere gli consentono di tenere il punto con grande eleganza. E lo fa da più di mezzo secolo (fu assai precoce) con l’implacabilità del gran signore.
Parlando dell’abitudine degli scrittori americani, inglesi e francesi di occuparsi di ambienti altolocati, Arbasino scrive non senza rammarico: «Nessun paragone possibile con noi: inammissibile immaginare Moravia o Pasolini o Calvino o chiunque altro come narratori di balli Colonna o Torlonia o all’Ambasciata Francese su “Nuovi argomenti” o riviste simili. O “Un weekend a Villar Perosa” descritto da un romanziere, un saggista, un poeta?».
Arbasino ha un debole per i grandi eventi (mica per forza mondani, ma anche artistici, politici, mostre, retrospettive, vernissage, dinner party) e per le personalità di spicco (in qualsiasi campo abbiano avuto voglia di distinguersi). Il che lo spinge a deridere ogni tipo di fiction realistica, tardo-ottocentesca, popolata di figurine scipite e sentimentali, per non dire dei memoir vetero-proustiani per cui ostenta una schietta ostilità. Nel saggio su Isherwood confessa come con l’età prevalga il desiderio di scrivere di cose viste e autentiche sulle «invenzioncine di una “fiction debole” poco interessante perché riferisce dei non-eventi e i pensierini da Caro Diario di autori che
La vera grandezza dell’Ingegnere — scrive Arbasino di Gadda — consiste nell’aver risolto i suoi possibili Buddenbrook milanesi rifiutando ogni naturalismo crepuscolare e ricorrendo con gusto esplosivo all’uso parossistico dell’enumerazione
non hanno avuto vita e inoltre non vivono (né per dono creativo, né per grazia stilistica) sulla paginetta». E tanto per essere chiari rincara la dose: «Insomma “Palazzeschi andò a trovare Marinetti”, o “Edmund Wilson ribatté a Nabokov”, o anche “Montgomery Clift salì in macchina con Elizabeth Taylor” sono spesso più attraenti che “Mi svegliai di soprassalto”, o “Elsa e Natalia tacquero a lungo”, o “Bob cucinò la bistecca”. Ma del resto anche Le vite di Vasari e Le memorie di Saint-Simon si leggono meglio che un Poema o una Tragedia, perché le traversie del Rosso Fiorentino e di Elisabetta Farnese van sempre meglio di una Cleofe che rattristossi o di un Poro che procombe». Vi prego di notare la malevola allusione metatestuale alla Ginzburg e alla Morante.
Un vecchio adagio (al quale mi attengo scrupolosamente) sostiene che è sempre meglio non conoscere i propri miti, né letterari, né calcistici, tanto meno sessuali. Arbasino la pensa altrimenti. Per lui conoscere i Grandi, o almeno conoscere chi li ha conosciuti o chi millanta di averlo fatto, è istruttivo. Ti consente di de-simbolizzare, demistificare. Ti difende da quel vizio in cui indulgono parecchi lettori della nostra epoca di trasfigurare qualcuno solo perché ha avuto la ventura di scrivere un buon libro o addirittura un capolavoro. È un vaccino contro l’idolatria, un modo per restituire umanità alla letteratura e togliere letterarietà all’umanità. Come quando ricorda una conversazione notturna e parecchio alcolica in casa di Edmund Wilson in cui il grande critico marxista inizia a demolire quello Scott Fitzgerald che lui stesso ha contribuito a riesumare dalle ceneri degli sguaiati anni Venti. Alle domande incalzanti di Arbasino su Fitzgerald, sui suoi romanzi, sulla sua cultura umanistica, sul mirabile crack-up, Wilson borbotta spazientito: «Cosa volete mai che leggesse... quello... brava persona... prodigiosamente dotato... ma non sapeva niente». Come a dire: sono uomini, non semidei.
Cosa intende con questo, che tra letteratura e gossip non esiste alcuna differenza? La parodia di Sainte-Beuve smerciata capziosamente ai posteri da quel bisbetico di Proust? O che il meglio che possa fare un narratore è raccontarci i cazzi propri, se possibile mettendo in piazza e alla berlina i segreti indicibili di amici e confidenti? Ma neanche per sogno. In un saggio Arbasino sembra biasimare Truman Capote il quale, nel suo celebre Preghiere esaudite, gettò fango sui suoi amici del jet set, facendo nomi e cognomi, ottenendo come solo effetto di essere da essi giustamente e per sempre messo alla porta e ostracizzato. «Come mai non capì — si chiesero tutti — che sarebbe stato cacciato e bandito proprio da quell’ambiente “ricchissimo” che gli era indispensabile per continuare il suo promesso capolavoro?». Del resto, l’ambizione di Capote di scrivere la « Recherche americana» non poteva certo limitarsi alla cinica messa in scena di ambienti viziosi e altolocati, visto che Proust è ben altro. Ciò che manca a Capote e alle sue preghiere è la «critica strutturale e formale per cui la Recherche non è tanto un romanzo “a chiave”, bensì una cattedrale con le sue ampie navate e i suoi mostricini gotici».
E allora che cos’è la buona narrativa per Arbasino? Qualcosa che somiglia più alla saggistica che ai romanzi sentimentali di George Sand, più alla satira che alla poesia lirica, più a una performance che a una pala d’altare del Rinascimento... Lo capisci quando ne L’Ingegnere in blu elogia l’insuperato primato de La cognizione del dolore. «La vera grandezza dell’Ingegnere consiste nell’aver risolto i suoi possibili Buddenbrook milanesi rifiutando ogni naturalismo crepuscolare, ogni elegia autunnale, ogni Come le foglie, ricorrendo invece con gusto esplosivo e disperato all’uso parossistico della madornale figura retorica dell’enumerazione». E qui Arbasino parla di Gadda certo, ma anche di se stesso. È da Gadda che ha appreso la funzione parodica delle enumerazioni. Vuoi descrivere un milieu? Affastella a casaccio ogni dettaglio di quel mondo ed esso apparirà grottesco e commovente com’è grottesca e commovente la nostra vita.
Ricordo che quando lo intervistai gli chiesi quale fosse il suo Flaubert preferito. La sua risposta mi scontentò non poco: Bouvard e Pécuchet. Mi sembrò uno snobismo, un insulto alla narrativa che amo, un oltraggio alla Bovary e una perniciosa sottovalutazione de L’Educazione sentimentale. Leggendo Ritratti e immagini capisco invece che si trattava di una scelta di campo, un partito preso implacabile. L’interesse di Arbasino per l’idiozia umana (la bêtise) è di chiara marca flaubertiana, o se preferite, cervantesiana. Per lui la divagazione conta più dei personaggi e delle scene madri: «Come quando Manzoni racconta l’entrata della peste con le bande alemanne nel Milanese, o Balzac spiega come si stampano i libri in caratteri Didot. O Melville misura lo scheletro della balena, Dostoevskij entra nei particolari dell’ordinamento monastico». Per Arbasino un grande romanziere non è altri che un saggista impazzito.
Vuoi descrivere un milieu? Affastella a casaccio ogni dettaglio di quel mondo ed esso apparirà grottesco e commovente. È il trionfo di Melville che misura lo scheletro della balena. O di Dostoevskij che spiega l’ordinamento monastico