Corriere della Sera - La Lettura
Una bussola per noi, non per gli extraterrestri
Per Montale era l’«araba fenice», per Brodskij «origine e meta della specie»
Montale paragonava la poesia all’araba fenice. Difficile dargli torto, specie quando si pensa alla prossimità che la poesia continua a possedere rispetto alla vita degli uomini. A volte si sente dare per persa, altre volte viene giudicata improbabile, inattuale, come fuori tempo massimo. Ma poi la si ritrova sempre lì, al centro di ciò che più distingue l’uomo in quanto tale, vale a dire la capacità della lingua. Così ogni volta sembra riaffiorare all’improvviso da chissà quali lontananze e profondità, disattendendo ogni previsione di atonia e di mortificazione. In realtà, non se ne era mai andata. Nella poesia, o anche nel discorso poetico, come spesso i poeti amano dire, le tensioni peculiari della lingua, che distinguono del resto la nostra antropologia in quanto tale, si trovano esposte a un grado massimo di evidenza e intensità. La relazione tra forma e contenuto, tra veglia e sogno, tra immagine e pensiero, tra io e altri, tra regola ed eccezione, e via dicendo. Non credo che la poesia attivi possibilità o virtù della lingua che siano una sua prerogativa esclusiva. Certo può suonare, e anzi di fatto suona, come una lingua strana o straniera, come è stato detto tante volte. Ma non è comunque una lingua di extraterrestri. Al contrario, batte proprio dove batte la lingua dell’uomo. Ma batte con più forza, più ritmo, più musica e significato, cioè appunto con più intensità. Dante, si permetta la similitudine un po’ pedestre, è stato il più grande dei poeti proprio perché è riuscito a correre un’intera maratona con l’intensità di un centometrista. Josif Brodskij ha ripetuto più volte che la poesia costituisce al contempo origine e meta della nostra specie. È vero. Leggendo una poesia si possono scoprire e conoscere tante cose, andare lontano, penetrare in territori sconosciuti. Eppure il dono più grande dispensato dall’esperienza poetica ha a che vedere con la consapevolezza di sé, come se la nostra immagine, ciò che davvero siamo, ci venisse ogni volta restituita. È una bussola antropologica: perderla sarebbe perdere se stessi.