Corriere della Sera - La Lettura
Cronaca di un’autodistruzione annunciata
Un noir capace di accensioni liriche: tra i minori del genere, Elliott Chaze è tra i maggiori
Di giornalisti prestati con successo alla narrativa, in specie quella noir, oggi sono pieni i cataloghi degli editori, in Italia e fuori. Mezzo secolo fa non era così. E infatti Elliott Chaze (1915-1990), reporter americano con il vizio del «bello scrivere», non è certo rimasto negli annali della letteratura, nemmeno di quella di genere, benché abbia scritto e pubblicato in patria — a partire dagli anni Cinquanta — una decina di romanzi. Eppure Il mio angelo ha le ali nere, traduzione letterale dell’originario Black Wings Has My Angel (1953) che Mattioli 1885 propone al pubblico ita- liano nell’ambito del suo percorso di riscoperta della narrativa «minore» a stelle e strisce, è un’opera che merita un posto nel best of del noir.
Si tratta di un viaggio nell’abisso luccicante del male (con il corredo della consueta miscela di donne, soldi e sesso) condotto seguendo il racconto autobiografico di Tim Sunblade, un giovane esponente della working class del sud degli Stati Uniti determinato a uscire con ogni mezzo —lecito e non — dalle secche della povertà e scivolato quindi rapidamente nel gorgo della piccola criminalità. Finito in carcere, Tim evade rocambolescamente con alcuni compagni, convinto di avere in mano il piano perfetto per arricchirsi (una rapina a un furgone portavalori studiata nei minimi particolari). Si lancia quindi senza titubanze nell’intrapresa, in compagnia della splendida ma inaffidabile Virginia, femme fatale senza scrupoli che sogna il lusso e gli agi al pari di lui e che a tutto è disposta per raggiungerli.
Ma non è la storia, che inanella (peraltro abilmente) tutti i cliché del genere, il punto di forza del libro. Il quale brilla invece soprattutto per le atmosfere ricreate da Chaze, inso- spettatamente lirico in più di un passaggio, quasi a voler riversare rivoli di luce nello scorrere prosaicamente nero della storia. Come nell’amaro paragrafo finale, che così inizia: «I carboni del fuoco scoppiettavano ancora nell’aria del mattino, sull’orlo del pozzo, e il cerchio nero della legna arsa brillava sotto la luce del sole, le ceneri erano nere e lucide come l’ala di un merlo».
Nella sua inarrestabile e autodistruttiva corsa verso il baratro, Tim vive rari momenti di pausa in cui ricordi e rimorsi si fanno dolorosamente sentire senza con questo riuscire a fargli tirare del tutto la leva del freno. Ed è in questi cali di ritmo che l’autore si insinua per lanciarsi in riflessioni esistenziali o in attacchi contro la vita di provincia americana, le sue piccinerie, il suo bigottismo, o ancora per assestare colpi al fasullo mondo dei ricchi e ignoranti americani del Sud.
Chaze ha in dote dalla sua anche uno stile levigato, asciutto e tagliente come una lama, intriso di un’ironia pungente e con il sottofondo di un under
statement diffuso, che spiazza — e insieme scuote — il lettore, conducendolo palpitante fino all’ultima pagina e lasciandogli in bocca, una volta chiuso il volume, un retrogusto amaro difficile da mandare via.