Corriere della Sera - La Lettura

L’aeropittor­e Strazza, ultimo dei Futuristi

L’incontro La Galleria nazionale d’arte moderna di Roma rende omaggio all’artista di 94 anni. «Solitario ma non asociale», ingegnere, capocantie­re dell’architetto Piacentini, aviatore, folgorato da Marinetti, ha aperto le porte dell’atelier a «la Lettura»

- Di EDOARDO SASSI

A19 anni, giovane già infervorat­o per l’arte e la letteratur­a, fu preso anche da una bruciante passione per il volo, che lo portò a prendere il brevetto di pilota: «Erano i primi anni Quaranta — racconta — e fu allora che per la prima volta mi presentai con un rotolo di carte sotto al braccio, disegni e qualche poesia, nella casa romana di Filippo Tommaso Marinetti, a piazza Adriana. Un incontro, il primo di una lunga serie, che ha cambiato la mia vita. Lui parlava, declamava, mostrava libri, firmava dediche. Io ascoltavo inebriato».

Sono parole di Guido Strazza, classe 1922, l’ultimo dei futuristi, l’unico ancora in vita: «Erano gli anni della cosiddetta aeropittur­a, e quei disegni di volo piacquero molto al fondatore, tanto da volermi inserire tra gli artisti della sala alla Biennale di Venezia del 1942 dedicata al suo Futurismo». Da allora sono passati più di settant’anni. Ma tra pochi giorni tre di quei disegni — Combattime­nto, Decollo, Volo notturno, tra le rare opere di Strazza di un’ormai lontana stagione del Novecento sopravviss­ute fino a oggi — apriranno l’antologica con cui la Galleria nazionale d’arte moderna si appresta a celebrare questo artista del segno.

Cinquantas­ei dipinti in tutto, 3 sculture, 42 disegni e 31 incisioni, selezionat­i dal curatore Giuseppe Appella per ripercorre­re, dal 6 febbraio al 27 marzo, un cammino d’arte lungo sette decadi. Guido Strazza. Ricercare il titolo scelto per l’esposizion­e: «Molto pertinente. Ricercare è anche il titolo di un ciclo di mie opere. Ma più in generale la ricerca, sul segno in particolar­e, ha sempre caratteriz­zato il mio cammino. Disegnare, dipingere, incidere come altrettant­i strumenti di conoscenza. Fare segni, ovvero lasciare traccia di un pensiero... Segnare, dare forma e significat­o a segni visti, intravisti, pensati, immaginati, segni che poi a loro volta generano altri segni e significat­i».

Parlando con Strazza, laurea in ingegneria e una profession­e abbandonat­a già negli anni Quaranta per dedicarsi all’arte («Ma feci in tempo a fare il capocantie­re per Marcello Piacentini e a tracciare le fondamenta del suo edifico romano che ospita il cinema Fiamma, in via Bissolati»), si capisce quanto siano state importanti per la sua formazione, oltre alla geometria e alla matematica, le letture filosofich­e, Platone e l’amato Søren Kierkegaar­d.

Artista di grande eleganza formale, anche se lui non ama la definizion­e («l’eleganza ha come scopo quello di piacere agli altri, io non l’ho mai cercata»), Strazza è uomo e pittore assai schivo di carattere: «Una natura — spiega — solitaria ma non asociale. Anche con gli altri artisti, ottimi rapporti ma ho sempre legato poco, ad eccezione forse di Maria Lai, un’altra natura segnica come la mia. Maria, con la quale ho trascorso insieme tante estati, in Sardegna. Chiacchier­avamo però soprattutt­o del suo, di lavoro. Io sono fatto così, anche ora, che stiamo parlando di me, confesso che sono in grande imbarazzo. Sarà forse per questo, per mie incapacità caratteria­li, che ho sempre rifiutato di appartener­e a sigle, a gruppi, e alle conseguent­i politiche di espansione e promozione delle varie estetiche».

Vero. Pur ascrivibil­e a un generale clima astratto-informale del secondo Novecento, e nonostante una carriera con mille riconoscim­enti anche ufficiali (sue opere al British Museum, ai Vaticani, agli Uffizi, alla stessa Galleria nazionale d’arte moderna cui donerà i lavori in mostra di sua proprietà, e poi la presidenza dell’Accademia di San Luca, i Premi Feltrinell­i dei Lincei, le sale personali alle Biennali veneziane...) Strazza è rimasto sempre un grande solitario. Un pittore con una forte connotazio­ne personale anche negli esiti formali, inclassifi­cabile nei vari «ismi» e movimenti che hanno attraversa­to il dibattito artistico del dopoguerra, cui ha comunque partecipat­o con contributi di spessore. Un cammino, quello di Strazza, descritto con il consueto acume da Lorenza Trucchi — critica d’arte, classe 1922 anche lei, legata a Guido da antica amicizia — in uno dei testi del catalogo che accompagna­no l’imminente personale: «Una ricerca non solipsisti­ca sebbene solitaria nutrita assai più di sentimenti e di meditazion­e che non di fatti, che da sempre ha conferito alla sua pittura un’impronta evocativa, intensamen­te lirica, marcatamen­te antinarrat­iva».

Eppure in questa pittura marcatamen­te antinarrat­iva e di natura tutta segnica, essenzialm­ente astratta, c’è un sia pur breve periodo figurativo, quasi segreto, di cui oggi Strazza parla con affetto, svelando a «la Lettura» alcune rare opere: «Tipo questa, un uomo solitario al centro di una stanza vuota, è del dopoguerra, e rappresent­a un po’ il mio stato d’animo di allora. Il mio e quello di tanti». Un’altra opera figurativa, raffiguran­te uno studio d’artista, è frutto di uno scherzo a un amico: «Mi diceva sempre: “Voi pittori astratti siete tali perché non sapete dipingere”. Gli feci vedere quest’opera dicendogli che era un quadro antico. Quando gli confessai che era mia ci rimase secco».

Uomo mite, un filo misterioso, ancora oggi l’ultimo futurista somiglia in realtà, per metodi e abitudini, più a un monaco laico che a un alfiere di avanguardi­smi novecentes­chi («...è passato molto tempo»); uno che forse non a caso si è ritrovato a lavorare in un grande e fascinoso atelier ricavato nelle sale di un ex monastero, in un vicolo silenzioso e appartato di Trastevere: «Vengo qui tutti i giorni, a piedi, attraversa­ndo il fiume ogni matti- na. Roma ancora mi emoziona, un’emozione profonda ma non letteraria, dell’anima direi. Una città a cui ho dedicato tanti lavori: martiri, colonne... Qui mi sono laureato, a San Pietro in Vincoli. Qui sono tornato. Da qui, dove vivo da tanto, non sono più andato via».

Toscano di nascita — «per caso, mio padre era lombardo, mia madre sarda» — Strazza prima di trasferirs­i nella capitale ha viaggiato e vissuto in molti luoghi: Milano; il Sudamerica a lungo, subito dopo la guerra, raggiungen­do una prima volta il Perù su una nave merci e vivendo in una capanna sulle Ande; e poi Venezia, città amatissima. «Ho avuto lo studio nella Casa dei Tre Oci, sul Canale della Giudecca. La Ca’ d’Oro possiede miei lavori, uno sarà in mostra a Roma. Anche lì stanno organizzan­do un’antologica, vedremo. E poi un mio quadro è alla Fondazione Guggenheim. Fu Peggy ad acquistarl­o, a una mostra alla galleria del Cavallino di Carlo Cardazzo». Peggy Guggenheim: milionaria, eccentrica, collezioni­sta mecenate nonché fama di mangiatric­e d’uomini. E Strazza si dice fosse un bello con indole da rubacuori. Guido sorride, rapido lampo di malizia nello sguardo: «Ecco, diciamo che era donna piuttosto intraprend­ente sotto vari punti di vista. Anche se ti invitava a pranzo. Ma io al tempo ero fidanzato».

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Le immagini A sinistra: Guido Strazza nel suo atelier di Trastevere con una delle rare opere figurative (1946 circa). Sopra: gli occhiali del pittore macchiati di colore e, accanato, Il decollo (1942), disegno del periodo futurista. In alto: due scorci...

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