Corriere della Sera - La Lettura
L’aeropittore Strazza, ultimo dei Futuristi
L’incontro La Galleria nazionale d’arte moderna di Roma rende omaggio all’artista di 94 anni. «Solitario ma non asociale», ingegnere, capocantiere dell’architetto Piacentini, aviatore, folgorato da Marinetti, ha aperto le porte dell’atelier a «la Lettura»
A19 anni, giovane già infervorato per l’arte e la letteratura, fu preso anche da una bruciante passione per il volo, che lo portò a prendere il brevetto di pilota: «Erano i primi anni Quaranta — racconta — e fu allora che per la prima volta mi presentai con un rotolo di carte sotto al braccio, disegni e qualche poesia, nella casa romana di Filippo Tommaso Marinetti, a piazza Adriana. Un incontro, il primo di una lunga serie, che ha cambiato la mia vita. Lui parlava, declamava, mostrava libri, firmava dediche. Io ascoltavo inebriato».
Sono parole di Guido Strazza, classe 1922, l’ultimo dei futuristi, l’unico ancora in vita: «Erano gli anni della cosiddetta aeropittura, e quei disegni di volo piacquero molto al fondatore, tanto da volermi inserire tra gli artisti della sala alla Biennale di Venezia del 1942 dedicata al suo Futurismo». Da allora sono passati più di settant’anni. Ma tra pochi giorni tre di quei disegni — Combattimento, Decollo, Volo notturno, tra le rare opere di Strazza di un’ormai lontana stagione del Novecento sopravvissute fino a oggi — apriranno l’antologica con cui la Galleria nazionale d’arte moderna si appresta a celebrare questo artista del segno.
Cinquantasei dipinti in tutto, 3 sculture, 42 disegni e 31 incisioni, selezionati dal curatore Giuseppe Appella per ripercorrere, dal 6 febbraio al 27 marzo, un cammino d’arte lungo sette decadi. Guido Strazza. Ricercare il titolo scelto per l’esposizione: «Molto pertinente. Ricercare è anche il titolo di un ciclo di mie opere. Ma più in generale la ricerca, sul segno in particolare, ha sempre caratterizzato il mio cammino. Disegnare, dipingere, incidere come altrettanti strumenti di conoscenza. Fare segni, ovvero lasciare traccia di un pensiero... Segnare, dare forma e significato a segni visti, intravisti, pensati, immaginati, segni che poi a loro volta generano altri segni e significati».
Parlando con Strazza, laurea in ingegneria e una professione abbandonata già negli anni Quaranta per dedicarsi all’arte («Ma feci in tempo a fare il capocantiere per Marcello Piacentini e a tracciare le fondamenta del suo edifico romano che ospita il cinema Fiamma, in via Bissolati»), si capisce quanto siano state importanti per la sua formazione, oltre alla geometria e alla matematica, le letture filosofiche, Platone e l’amato Søren Kierkegaard.
Artista di grande eleganza formale, anche se lui non ama la definizione («l’eleganza ha come scopo quello di piacere agli altri, io non l’ho mai cercata»), Strazza è uomo e pittore assai schivo di carattere: «Una natura — spiega — solitaria ma non asociale. Anche con gli altri artisti, ottimi rapporti ma ho sempre legato poco, ad eccezione forse di Maria Lai, un’altra natura segnica come la mia. Maria, con la quale ho trascorso insieme tante estati, in Sardegna. Chiacchieravamo però soprattutto del suo, di lavoro. Io sono fatto così, anche ora, che stiamo parlando di me, confesso che sono in grande imbarazzo. Sarà forse per questo, per mie incapacità caratteriali, che ho sempre rifiutato di appartenere a sigle, a gruppi, e alle conseguenti politiche di espansione e promozione delle varie estetiche».
Vero. Pur ascrivibile a un generale clima astratto-informale del secondo Novecento, e nonostante una carriera con mille riconoscimenti anche ufficiali (sue opere al British Museum, ai Vaticani, agli Uffizi, alla stessa Galleria nazionale d’arte moderna cui donerà i lavori in mostra di sua proprietà, e poi la presidenza dell’Accademia di San Luca, i Premi Feltrinelli dei Lincei, le sale personali alle Biennali veneziane...) Strazza è rimasto sempre un grande solitario. Un pittore con una forte connotazione personale anche negli esiti formali, inclassificabile nei vari «ismi» e movimenti che hanno attraversato il dibattito artistico del dopoguerra, cui ha comunque partecipato con contributi di spessore. Un cammino, quello di Strazza, descritto con il consueto acume da Lorenza Trucchi — critica d’arte, classe 1922 anche lei, legata a Guido da antica amicizia — in uno dei testi del catalogo che accompagnano l’imminente personale: «Una ricerca non solipsistica sebbene solitaria nutrita assai più di sentimenti e di meditazione che non di fatti, che da sempre ha conferito alla sua pittura un’impronta evocativa, intensamente lirica, marcatamente antinarrativa».
Eppure in questa pittura marcatamente antinarrativa e di natura tutta segnica, essenzialmente astratta, c’è un sia pur breve periodo figurativo, quasi segreto, di cui oggi Strazza parla con affetto, svelando a «la Lettura» alcune rare opere: «Tipo questa, un uomo solitario al centro di una stanza vuota, è del dopoguerra, e rappresenta un po’ il mio stato d’animo di allora. Il mio e quello di tanti». Un’altra opera figurativa, raffigurante uno studio d’artista, è frutto di uno scherzo a un amico: «Mi diceva sempre: “Voi pittori astratti siete tali perché non sapete dipingere”. Gli feci vedere quest’opera dicendogli che era un quadro antico. Quando gli confessai che era mia ci rimase secco».
Uomo mite, un filo misterioso, ancora oggi l’ultimo futurista somiglia in realtà, per metodi e abitudini, più a un monaco laico che a un alfiere di avanguardismi novecenteschi («...è passato molto tempo»); uno che forse non a caso si è ritrovato a lavorare in un grande e fascinoso atelier ricavato nelle sale di un ex monastero, in un vicolo silenzioso e appartato di Trastevere: «Vengo qui tutti i giorni, a piedi, attraversando il fiume ogni matti- na. Roma ancora mi emoziona, un’emozione profonda ma non letteraria, dell’anima direi. Una città a cui ho dedicato tanti lavori: martiri, colonne... Qui mi sono laureato, a San Pietro in Vincoli. Qui sono tornato. Da qui, dove vivo da tanto, non sono più andato via».
Toscano di nascita — «per caso, mio padre era lombardo, mia madre sarda» — Strazza prima di trasferirsi nella capitale ha viaggiato e vissuto in molti luoghi: Milano; il Sudamerica a lungo, subito dopo la guerra, raggiungendo una prima volta il Perù su una nave merci e vivendo in una capanna sulle Ande; e poi Venezia, città amatissima. «Ho avuto lo studio nella Casa dei Tre Oci, sul Canale della Giudecca. La Ca’ d’Oro possiede miei lavori, uno sarà in mostra a Roma. Anche lì stanno organizzando un’antologica, vedremo. E poi un mio quadro è alla Fondazione Guggenheim. Fu Peggy ad acquistarlo, a una mostra alla galleria del Cavallino di Carlo Cardazzo». Peggy Guggenheim: milionaria, eccentrica, collezionista mecenate nonché fama di mangiatrice d’uomini. E Strazza si dice fosse un bello con indole da rubacuori. Guido sorride, rapido lampo di malizia nello sguardo: «Ecco, diciamo che era donna piuttosto intraprendente sotto vari punti di vista. Anche se ti invitava a pranzo. Ma io al tempo ero fidanzato».