Corriere della Sera - La Lettura
Il Dna, da Mendel alla pecora Dolly
La mostra Nel 1865 un monaco agostiniano cambiò per sempre la biologia studiando 34 varietà di piselli Una rassegna al Palazzo delle Esposizioni di Roma ripercorre un’avventura lunga centocinquant’anni
Nell’orto dell’antica abbazia di San Tommaso a Brno, città della Repubblica Ceca, verso la metà dell’Ottocento c’era una serra. E dentro la serra i vasi in cui il monaco agostiniano Gregor Mendel, studioso di biologia e matematica, coltivava trentaquattro differenti varietà di piselli. Li chiamava «i miei bambini», li accudì per sette anni, raccogliendo i semi che poi divideva per colore o per forma. Incrociando ripetutamente pollini e macrogameti di queste piante arrivò a comprendere i meccanismi dell’ereditarietà, che pubblicò nel 1865. Fu una grande rivoluzione scientifica, di cui quasi nessuno si rese conto. Mendel inviò estratti del suo lavoro in tutta Europa, ma in pochi gli risposero. Quando morì, il 6 gennaio 1884, i suoi studi erano stati dimenticati. Poche ore prima aveva scritto: «Verrà il mio tempo…».
Oggi non si fa che parlare delle scoperte derivate dai suoi esperimenti: Dna, genoma, clonazione, organismi geneticamente modificati, biologia sintetica, medicina rigenerativa, bioingegneria, ambizione all’immortalità, finger-printing genetico che permette di individuare i criminali attraverso il sangue, la pelle o la saliva lasciati sulla scena del delitto. Scoperte che creano speranze, ma anche dubbi e paure. Perché ci permettono di conoscere la storia della nostra vita, iscritta in quelle entità microscopiche chiamate geni. E, intervenendo sui geni, di modificarla. Una possibilità che ha provocato una serie di questioni, spesso roventi, sull’idea stessa di essere umano e sui rapporti tra la scienza e la società contemporanea. «Per fortuna, nel dibattito pubblico e istituzionale, si sta finalmente diffondendo la consapevolezza che bisogna tentare di costruire un senso di appartenenza a una comunità aperta e inclusiva che sappia non soltanto adattarsi, ma anche gestire la complessità dell’innovazione scientifico-tecnologica. Il Public engagement with science diventa così non solo un obiettivo ambizioso ribadito in diverse sedi e documenti, ma anche uno strumento per favorire le interazioni tra i linguaggi di esperti e non esperti e per estendere la democrazia e le sue garanzie ai discorsi scientifici», sostiene Fabrizio Rufo, docente di Bioetica presso l’Università La Sapienza di Roma.
In che modo gli scienziati possono raccontare e condividere questo sguardo molecolare che sta cambiando le nostre vite? L’Azienda Speciale Palaexpo ha pensato a una mostra, Dna. Il grande libro della vita da Mendel alla genomica, che si inaugura al Palazzo delle Esposizioni di Roma il 10 febbraio ed è curata da Rufo insieme con Bernardino Fantini, Telmo Pievani e Sergio Pimpinelli. Nel comitato scientifico figurano importanti accademici e ricercatori nei campi della genetica, dell’etica, della demografia, della storia e filosofia della scienza, tra cui alcuni premi Nobel come Werner Arber, Sydney Brenner, Timothy Hunt, Eric F. Wieschaus, Ada Yonath. «Per un tema vasto come la genetica — spiega Pievani — una mostra ha il compito di suscitare domande e di far pensare, più che di dare risposte. Perciò abbiamo creato un percorso rigoroso dal punto di vista scientifico, e al tem- po stesso emozionale, capace di coinvolgere un pubblico differenziato, di adulti e bambini, appassionati e non, con fotografie, video, grafiche e cartoon, scenografie, pannelli interattivi, reperti originali che rievocano storie di scienziati e di scoperte».
Il percorso comincia ovviamente con la storia di Mendel, raccontata dal fac-simile del manoscritto con le formule delle sue ibridazioni e i libri con le annotazioni autografe, il microscopio che lo aiutava a castrare i fiori, gli occhiali e il barometro, il telescopio e la ricostruzione scenografica dell’orto di Brno.
Nel 1900 alcuni scienziati riscoprono le leggi di Mendel e cominciano a sviluppare a grandi passi la biologia cellulare. Individuano i geni, responsabili della trasmissione dei caratteri biologici, che stanno nel nucleo allineati sui cromosomi e descrivono le mutazioni genetiche. Il «bosco dei cromosomi», creato per far capire ai visitatori come funzionano, è uno spazio affollato da ventitré colonne che rappresentano altrettanti cromosomi popolati di geni. A seconda delle loro combinazioni cambiano le storie degli esseri viventi. Si scoprono le aberrazioni razziali della cosiddetta eugenetica, che i nazisti fecero propria nell’illusione di «correggere» fisicamente e mentalmente gli esseri umani. Si passeggia intorno a gigantesche drosofile, i moscerini della frutta, che nella realtà sono lunghi appena tre millimetri e sembrano insignificanti. Invece su alcuni individui mutanti furono fatti esperimenti fondamentali per lo sviluppo della genetica. Si affronta uno strano branco di animali, metaforiche ricostruzioni di tutti quelli che la scienza è stata in grado di clonare partendo dalla domanda «che cosa succede se trapiantiamo il nucleo di una cellula adulta dentro una cellula uovo privata del suo materiale genetico originario?». Ed ecco la pecora Dolly, nata nel 1996; la topolina Cumulina, del 1997; il toro Galileo clonato in Italia nel 1999; la cavalla Prometea, nel 2003. E poi cani e gatti che oggi sono clonati a pagamento, come i cinque cuccioli di pitbull prodotti da un’azienda sudcoreana. Si incontra Henrietta Lacks, la donna afro-americana morta di cancro alla cervice nel 1951. Dai tessuti prelevati da Henrietta nacque una linea cellulare denominata HeLa, brevettata e venduta in tutto il mondo, e utilizzata per sviluppare il vaccino contro la poliomielite, per la ricerca sul cancro, l’Aids, lo studio degli effetti di radiazioni e di sostanze tossiche, la mappatura di geni. È stata impiegata perfino per testare la sensibilità umana al nastro adesivo, alla colla, ai cosmetici, e a molti altri prodotti. Un biologo ha calcolato che sulla superficie della Terra dovrebbero esserci adesso circa cinquanta milioni di tonnellate di cellule di Henrietta.
Si chiude con la genetica forense, i cacciatori di Dna antico, il modello peloso del piccolo mammut congelato in Siberia quarantamila anni fa e ritrovato nel maggio del 2007 con i tessuti molli ancora intatti, dai quali si potrebbe estrarre il Dna per farlo rinascere.
lcolonnelli@corriere.it