Corriere della Sera - La Lettura
I pennelli tirano giù i muri. Del carcere
Performance Tre artiste hanno coinvolto una ventina di detenuti di Regina Coeli a Roma per realizzare un murale, «Fuori di giugno», e la decorazione della sala cinema. Ora l’impegno a rendere visibili le opere a tutti i cittadini
ARoma c’è chi fugge dal carcere calandosi dalle finestre con le lenzuola annodate, dopo aver lasciato un manichino sotto le coperte per ingannare i secondini, come hanno fatto tre detenuti di Rebibbia a ottobre. Immagini che richiamano alla memoria Il conte di Montecristo e Papillon. Ma c’è anche chi evade solo con il cuore, gettando lo sguardo oltre la cella attraverso una finestra dipinta su un muro, come succede a Regina Coeli, ex convento trasformato in istituto di pena nel XIX secolo.
Tre artiste e una ventina di reclusi hanno infatti lavorato insieme per mesi, a titolo gratuito, per realizzare delle opere d’arte permanenti fra le larghe mura che racchiudono l’orizzonte a un migliaio di detenuti, spesso in condizioni che nel 2013 furono definite da Laura Boldrini, presidente della Camera, di «inaccettabile disumanità» al termine di una visita ufficiale. «Abbiamo portato il mondo esterno dentro il carcere, ma è stato anche un modo per far emergere la creatività, i sentimenti e le esperienze di chi vive rinchiuso» racconta a «la Lettura» Laura Federici, architetto, pittrice e videomaker, una delle tre performer, insieme alla street artist Pax Paloscia e alla poliedrica Camelia Mirescu, che hanno sposato il progetto Outside/Inside/Out, organizzato dalle associazioni VoReCo (Volontari Regina Coeli) e Shakespeare & Company2. Un modo per opporre la bellezza dell’arte alla coercizione del carcere ma anche un tentativo di regalare momenti di libertà virtuale ai detenuti perché — come scriveva Goethe — «non c’è via più sicura dell’arte per evadere dal mondo» e forse anche dalla cella.
«All’inizio — ricorda Federici — ero spaventata, il primo giorno avevo sicuramente dei pregiudizi che sono scomparsi lavorando insieme. La mia idea era cercare di rendere più aperto uno spazio chiuso. Ogni giorno, arrivando a piedi a Regina Coeli, scattavo fotografie, prendevo appunti e raccoglievo le sensazioni suscitate da ciò che vedevo fuori e poi portavo tutto dentro il carcere. Nelle prime settimane, parlando con i detenuti, ho illustrato che tipo di lavoro avrei voluto fare nell’androne di passaggio che ci è stato assegnato. Molti mi hanno raccontato le loro storie, forse alcuni hanno anche inventato qualche particolare per impressionarmi e io ho cercato di capire non so- lo come è la vita in cella, ma anche come immaginano il mondo fuori. Poi abbiamo cominciato a dipingere, a mettere insieme foto, a lavorare sulle immagini. E la risposta è stata stupenda, alcuni pur di partecipare hanno rinunciato alle attività retribuite e alle ore di svago».
Il risultato è un coloratissimo murale, «una grande finestra aperta sull’orto botanico che costeggia il carcere», spiega Claudio Crescentini, responsabile dell’organizzazione eventi del Macro, il Museo di arte contemporanea che ha promosso il progetto insieme a Roma Capitale. E ancora: «Ci sono alberi raffigurati con lo stile, il linguaggio e le tecniche espressive di Laura Federi cima arricchite dalla partecipazione attiva dei detenuti. Il progetto infatti non voleva essere un’ attività didattica o ricreativa all’interno del carcere, come già senef annotante, ma voleva andare oltre esi è posto come momento creativo sullo sviluppo della multifunzionalità dell’arte contemporanea e della sua apertura concettuale in spazi generalmente intesi come chiusi ma che tendono ad accogliere mondi infiniti interiori dei suoi abitanti».
Non sono mancate le difficoltà, a cominciare dai problemi burocratici per portare dentro attrezzature e materiali: «Ogni volta c’era da attendere settimane per avere i permessi — dice Federici — ma quando ti avventuri in un progetto del genere molte necessità le scopri giorno per giorno andando avanti con la realizzazione. Però ce l’abbiamo fatta, anche se ho un rammarico: nella nostra opera, intitolata Fuori di giugno, mancheranno due firme, quelle di Roberto e Claudio, che sono stati trasferiti in altri istituti prima della fine del lavoro».
Non è stato facile nemmeno convincere il personale del carcere della validità dell’iniziativa: qualcuno infatti vedeva nell’apertura al mondo esterno un’attenuazione della pena ma, con il passare delle settimane, l’entusiasmo ha conta- giato gli agenti e la diffidenza è stata sconfitta, grazie anche all’impegno della direzione dell’istituto.
Inizialmente i detenuti che hanno deciso di partecipare erano stati divisi in tre gruppi, ciascuno assegnato a un’artista. «A un certo punto però ci siamo rese conto che era cominciata una sorta di gara fra loro e non era questo lo spirito — racconta ancora Federici — e allora abbiamo deciso di alternarli con ciascuna di noi e c’è stato un ulteriore scambio di esperienze».
«Un giorno — sottolinea divertita Pax Paloscia, autrice di opere anche a New York — ci siamo ritrovati a lavorare tutti insieme al ritmo della musica di Rihanna, scherzando e ridendo. C’era un’atmosfera bella, non sembrava di stare in un carcere». La street artist in particolare ha progettato e realizzato un intervento di decorazione su tutte le pareti della sala del cinema, raffigurando personaggi famosi del mondo della cultura e dello spettacolo. «Mi sono presentata — aggiunge — con una mia idea. Volevo rendere omaggio ai grandi nomi ma la cosa divertente è che ognuno aveva da proporre un personaggio: dai divi di Bollywood che io nemmeno avevo mai sentito nominare a Pasolini, perché c’era un detenuto che voleva assolutamente che ci fosse. Un altro ragazzo mi ha chiesto di raffigurare il rapper Tupac. È venuta quindi fuori una vera opera collettiva, intitolata Rebirth, “rinascita”, e molti detenuti si sono rivelati più bravi degli iscritti di certe scuole di disegno che ho avuto modo di frequentare».
Camelia Mirescu, artista di origini romene trapiantata a Roma dal 1990, ha invece realizzato insieme ai detenuti un lavoro multi-visuale raccogliendo immagini del patrimonio artistico italiano in un collage trattato con materiale translucido, giocando sulla contrapposizione fra la tradizione dei contenuti e l’innovazione della forma. «Anche in questo caso è stata un’opera corale, con alcuni detenuti che scoprivano stupefatti i capolavori di Raffaello o del Caravaggio che non avevano mai visto prima», conclude Claudio Crescentini. Adesso «cercheremo di trovare il modo di rendere visitabili al pubblico gli spazi che ospitano le opere».