Corriere della Sera - La Lettura
Il negoziatore dei pirati
Alì Mohammed Alì mediò per gli ostaggi della «Future» «L’Occidente si ritira, in Somalia il fenomeno tornerà»
Criminalità Nel 2009 i 71 giorni di sequestro della nave cargo danese terminarono anche grazie all’intervento di un ex tassista diventato direttore generale del ministero dell’Istruzione dell’autoproclamata Repubblica del Somaliland. È la prima persona processata (e poi rilasciata) negli Stati Uniti per aver trattato un riscatto a favore dei fuorilegge del mare davanti al Corno d’Africa
Il 14 gennaio 2009 un aereo privato parte da Copenaghen con un container impermeabile. Dentro ci sono un milione e 700 mila dollari, il riscatto che il Gruppo Clipper ha accettato di pagare per liberare 13 membri dell’equipaggio della nave da cargo «Future», che si trova nelle mani dei pirati somali da 71 giorni. L’aereo fa scalo a Gibuti dove il denaro viene trasferito su un velivolo più piccolo. Alle dieci del mattino del giorno dopo, il pilota intercetta la «Future». I 13 membri dell’equipaggio sono sul ponte. Il pilota riceve l’ordine di sganciare il container. «Era una giornata caldissima», mi dice Alì Mohammed Alì, in una serie di interviste che sto conducendo con lui da diversi mesi. Sto cercando di ricostruire in dettaglio la storia dei negoziati per liberare la «Future». Questa vicenda ci permette di capire come l’industria marittima e le assicurazioni gestiscano i rapimenti in mare, come la linea che separa vittime e carnefici sia sottile, come alleanze impensabili si formino e disfino.
Il 15 gennaio Alì, esausto e impaurito, vede il denaro cadere dal cielo. Dopo aver recuperato il container, i pirati entrano nella cabina del comandante, armati. Al capitano della nave, di origine russa, viene dato il compito di contare le mazzette. I soldi ci sono tutti. Mentre i pirati si preparano a festeggiare, una dozzina di piccole imbarcazioni si avvicinano alla nave. Almeno una ventina di uomini salgono a bordo. Sono negozianti, affaristi, rappresentanti dei clan, creditori. Tutti vogliono la loro parte: essere pagati per aver rifornito la nave di la droga diffusissima in Somalia, di cibo e di carburante. I prezzi sono esorbitanti: «Una lattina di Coca-Cola costava quindici dollari, una capra 200 dollari (a terra ne costa 25)», mi dice Alì. La tensione è alle stelle. Chi pretende per sé una parte eccessiva del riscatto viene malmenato, le mani schiacciate dalla porta della cabina di comando. Il sangue comincia a scorrere. Mentre pirati e creditori si azzuffano, un’altra flottiglia si avvicina. Dal ponte della nave partono colpi di kalashnikov. L’arrembaggio viene respinto. Il momento più pericoloso è la divisione delle spoglie. Dopo 16 ore, i creditori finalmente lasciano la nave, portandosi via il grosso del malloppo. Ai pirati restano le briciole. Se vengono arrestati dalle autorità americane, rischiano l’ergastolo. La tensione cresce ancora.
La «Future» riprende il suo viaggio e scompare all’orizzonte, mentre sulla spiaggia le recriminazioni continuano. A un certo punto Omar, il comandante del gruppo, imbraccia il mitra e comincia a sparare. Alì, terrorizzato, scappa. Omar sarà ucciso dai suoi compagni in uno scontro a fuoco a pochi metri da dove aveva tenuto in ostaggio l’equipaggio.
Chi è Alì? Le cronache raccontano che è stato, dal 2009 al 2011, il direttore generale del ministero dell’Istruzione della regione del Somaliland, di fatto uno Stato autonomo non riconosciuto dalla comunità internazionale. Durante un viaggio di lavoro negli Usa nel 2011 viene arrestato dall’Fbi. È la prima persona processata per aver negoziato un riscatto a favore di pirati somali negli Stati Uniti. Il suo caso è un esempio significativo di applicazione del principio della giurisdizione universale: la nave è danese, la bandiera delle Bahamas, l’equipaggio russo, i pirati somali e il processo si tiene negli Usa.
L’accusa però non riesce a dimostrare che Alì sia un pirata o che abbia in alcun modo beneficiato del riscatto. Il giudice ordina la sua scarcerazione. Oggi vive ad Hargeisa, la capitale del Somaliland. Fumatore incallito, Alì ha un eloquio chiaro e preciso quando mi parla attraverso Skype dal suo studio ben arredato e confortevole. Intravedo delle donne di famiglia, una casa, una nuova vita. «Sono nato ad Aden, in Yemen, nel 1962 e, con i miei genitori, ci siamo trasferiti a Mogadiscio nel 1969, l’anno del golpe di Siad Barre», il dittatore che controllerà il Paese fino al 1991. In quegli anni«Mogadiscio era un paradiso in terra… Gli italiani si ritrovavano alla Casa d’Italia. Molti lavoravano nel settore delle costruzioni, c’era anche una fabbrica della Fiat. L’ospedale Martini funzionava alla perfezione». Nei ricordi di Alì c’era rispetto tra comunità diverse. «Oggi se sei di pelle bianca non passi inosservato in Somalia. I tempi sono molto peggiorati».
Alì proviene da una famiglia della classe media somala. Il suo clan è basato nel nord-est del Paese. Finite le scuole superiori, decide di andare a studiare negli Stati Uniti, dove si iscrive alla State University di New York (Suny). Nonostante potesse contare sui mezzi finanziari della famiglia, al terzo anno è costretto a lasciare gli studi perché la retta è troppo alta. Dal 1984 al 2007 vive negli Stati Uniti facendo lavori disparati (ad esempio, il tassista) e si muove tra New York,
Memphis e Washington, sperando un giorno di ottenere il permesso di soggiorno.
Dopo l’11 settembre, offre i suoi servizi di consulenza al governo americano, in particolare al ministero della Homeland Security. Il governo è alla disperata ricerca di intelligence. Secondo il suo avvocato, l’aiuto che Alì fornisce al governo lo porta a un passo dall’agognata green card. Nell’estate del 2007 deve presentarsi all’ultimo, definitivo colloquio col giudice. Poi avviene l’imprevisto. Durante un viaggio in Somalia, Alì viene lasciato dalla moglie e deve occuparsi del figlio di 5 anni. Non è sicuro di poter tornare negli Stati Uniti col bambino e decide di rimanere in Somalia. Perde così l’appuntamento col giudice, e quindi con un destino, con un’ipotesi di vita.
In Somalia non è facile trovare lavoro e Alì cerca di accreditarsi come consulente dei governi occidentali sul tema della pirateria, del crimine organizzato e del traffico di esseri umani. Parla perfettamente l’inglese ed è ben inserito nel suo clan. Quando viene a sapere che una coppia tedesca è stata rapita mentre transitava attraverso il golfo di Aden, si precipita a offrire i suoi servizi. «Erano tenuti in condizioni disumane. Sono riuscito a farmi dire dove si trovavano e a metterli in contatto con l’ambasciata tedesca. I rapitori hanno poi trasferito la coppia in un’altra regione della Somalia». Secondo Alì, «funzionari del governo della regione somala del Puntland hanno negoziato un riscatto di un milione di dollari». Durante quel periodo, Alì mantiene i contatti con l’Homeland Security, a detta del suo avvocato.
Dopo il rilascio della coppia tedesca, l’ex tassista si trasferisce col figlio nel porto di Bosasso, la Tortuga somala. Cerca di informarsi sui movimenti dei pirati. Lì prende la decisione che gli cambierà la vita: lascia il figlio con un parente e accetta di salire sulla «Future», che è a un giorno di viaggio. Secondo il resoconto che mi ha fatto, il leader dei pirati lo costringe a diventare il negoziatore ufficiale ma viene trattato alla stregua di un ostaggio.
Durante quel periodo capisce come funziona il sistema della criminalità marittima. «La pirateria somala — spiega — non è altamente sofisticata e non ci sono investimenti dall’estero. Organizzare diverse missioni costa poche migliaia di dollari. Un pirata come Omar recluta quattro o cinque ragazzini con i quali cerca di intercettare navi occidentali. Spesso la ricerca non va a buon fine». Quando l’arrembaggio ha successo, i pirati devono trovare un luogo sicuro dove ancorare la nave. Il clan che controlla la zona si fa pagare cifre altissime per la «sicurezza». Chi ci guadagna in questo sistema sono i negozianti e i politici sulla terraferma.
Oggi la pirateria somala è considerata da molti un problema del passato. Dal 2013, nessuna nave straniera è stata catturata. Le flotte dell’Unione europea, della Nato e degli Stati Uniti pattugliano il golfo di Aden, mentre le navi commerciali hanno a bordo guardie armate. Che senso ha, nell’era di Trump, preoccuparsi dei clan somali? «La pirateria tornerà», assicura Alì. Proprio in questi giorni, la Nato ha comunicato la fine della sua missione. Vi sono ben pochi dubbi che gli Stati Uniti lasceranno la Somalia al suo destino. Diversi armatori hanno già deciso di ridurre le guardie armate e spingono gli equipaggi a navigare vicino alle coste somale per ridurre i tempi.
«Il commercio internazionale marittimo è estremamente competitivo, i margini di profitto sono bassi e ogni spesa aggiuntiva vanifica l’investimento», mi dice Per Gullestrup, l’amministratore delegato della Clipper che si trovò a negoziare con Alì il riscatto della «Future» nel natale del 2008.
Gli studiosi sono concordi nel ritenere che l’unica soluzione sia sulla terraferma. Questa consiste nel convincere i clan a smettere di proteggere la pirateria e dedicarsi invece alla protezione del commercio legale. La comunità internazionale dovrebbe impegnarsi a costruire delle infrastrutture. Puntland, la regione con la più alta concentrazione di pirateria, è anche quella con il minor numero di strade. Se lasciamo la Somalia a se stessa, clan in conflitto tra loro non saranno in grado di resistere alle sirene della criminalità marittima e saranno facile preda di Al-Shabaab, il gruppo terrorista che per anni ha controllato il sud del Paese e che in questi giorni ha lanciato un’offensiva contro Mogadiscio.
Nella finzione cinematografica, Alì si è ritrovato un’ultima volta sul ponte di quella nave. La pellicola danese presentata alla Mostra del cinema di Venezia del 2012, racconta una versione del dirottamento della «Future». Il film si conclude con l’omicidio di un ostaggio e con i pirati che lasciano indisturbati la nave, sotto gli sguardi del cuoco. Ho chiesto ad Alì se avesse visto il film. «No», mi risponde. «Non avevo alcun interesse».