Corriere della Sera - La Lettura
Mangiano e dormono qui da settembre Presidiano impianti e macchinari
Diego invece la multinazionale statunitense vuole togliere di mezzo i brevetti, fare un prodotto di serie abbattendo i costi e monopolizzando il mercato. «Dopo, tutti saranno costretti a comprare da loro, e faranno anche il prezzo».
Appena è scattata l’occupazione, hanno trovato appeso alla bacheca un avviso con le posizioni disponibili con inquadramento operaio a Rivalta, Pomigliano d’Arco, Brindisi, Massa, Firenze e Bari. L’azienda americana ha offerto agli operai in esubero una nuova assunzione, comunque lontano da casa, ma solo tre hanno accettato.
Quando il caffè comincia a gorgogliare, da un letto a castello dove ha appeso la sciarpa rossonera del Milan a una barra metallica, emerge la sagoma di un ragazzo dai capelli rossicci che chiede l’ora. È uno dei più giovani, qui dove l’età media è di 39 anni, addetto all’impaccatura degli statori. «Le porto il caffè in camera signor Arosio?», lo sfotte Diego.
Poco dopo Roberto Cazzaniga, stretto nel giaccone, sguscia tra le due tende di cellophane: è uno spilungone biondo con l’aria seria che hanno certi lombardi, capelli corti a spazzola, una calvizie al centro. È uno dei pochi impiegati che ha deciso di occupare, e sta qui dai tempi della Marelli. Il Cazzaniga, poco più che cinquantenne di poche parole, una volta che siamo al centro del padiglione monumentale dice malinconico: «È surreale». Più tardi aggiungerà: «Ricordo anni in cui qui eravamo in mille, c’era solo una corsia per camminare per quanto lavoro avevamo». Adesso gli sembra di vederla la fabbrica febbricitante che c’era in quei tempi gloriosi. «Questo capannone era stato costruito per il nucleare, quando sono stato assunto nel 1986 c’erano ancora le ruspe con i muratori». Altri alcuni passi e dice anche: «Entri e non vedi più le persone, quelli con i quali hai lavorato tanti anni». Perché lui, il Cazzaniga, quando è entrato ne aveva 22 e di giovani ce n’erano pochi, allora. «Poi c’è stato un buco generazionale, vedevi ancora le lotte operaie e la carpenteria, saldavano — dice raccontando un altro mondo — picchiavano, co- struivano tutti i pezzi», dopo hanno cominciato ad arrivare i terzisti, a delocalizzare, è finito il lavoro.
Poi è cambiato il mondo.
«Prima arrivavi in viale Italia, dico tra il 1986 e il 1990, e vedevi ancora capannelli di operai alle fermate degli autobus, tanta gente, adesso non c’è in giro un cane». Sostiene che situazioni come queste le vivevano in strada, non tappati come topi qua dentro, sui viali «potevi incontrare tute sporche e bidoni picchiati come tamburi».
Mentre mi accompagna a vedere il rotore «ostaggio» che sta dentro il gabbiotto della camera grigia, con tanto di controllo di temperatura e d’umidità, mi racconta sconsolato che nella sua storia lavorativa ha vissuto diverse ristrutturazioni, tutte con cassa integrazione e cambi societari. «Questi hanno detto proprio basta, per te non c’è più niente, e fuori di lavoro ne trovi zero, non hai la mentalità dei giovani precari, è tutto difficile».
Sono orgogliosi di questo rotore, dentro c’è tutta la loro conoscenza, le capacità manuali, l’intelligenza creativa. «Non pensavo che arrivassero alle lettere di licenziamento», dice Roberto: «Ho avuto sempre una speranza, si era sempre trovata una soluzione». Quando ha deciso di occupare insieme con gli altri, lui che è stato sempre uno fuori dal coro, ne ha parlato anche con la moglie. «Ci siamo guardati negli occhi, poi le ho detto: proviamo a fare questa lotta. Lei non mi ha ostacolato». Almeno loro sono senza figli, altri hanno dovuto mollare, «non è facile reggere». Adesso la fabbrica inanimata sembra l’ala attrezzata e gelida di un museo di una civiltà sepolta, e noi due visitatori pigri-soli-sconsolati tra i reparti e le macchine. «Certo, arrivare la mattina e non avere niente da fare...», sussurra immalinconito il Cazzaniga, stringendosi nelle spalle. «È un luogo morto, non c’è più un rumore, hanno chiuso non perché non c’era lavoro, ma perché hanno deciso di farlo da un’altra par- te», commenta senza rabbia, a bassa voce. Ormai ognuno viene qua nel proprio turno, scambiano quattro chiacchiere, ma l’argomento è sempre lo stesso: «Ci raccontiamo del licenziamento, le problematiche burocratiche, la chiamata dell’ufficio di collocamento, la pratica all’Inps, e poi cerchiamo di tenere in ordine e pulito».
Ma una cosa buona c’è stata, vivere fianco a fianco qua dentro il padiglione tutti questi giorni, mangiare insieme, giocare a bigliardino o a ping pong, davanti ai bagni dove hanno riposto le batterie di pentole, gli scolapasta, la grattugia metallica. «Impari a conoscere molto di più i tuoi colleghi, gente che magari vedevi poco, senti situazioni familiari e umane tutte diverse». Anche se «venire qua tutti i giorni a non fare niente è snervante — sostiene il Cazzaniga — ma spero che questa maledetta lotta porti a qualcosa di buono. Non è che stai chiedendo chissà cosa», insiste: «Stai chiedendo di poter continuare a lavorare».
Il tempo sembra non passare mai, molti operai si spostano dalla guardiola al padiglione, camminano lungo il viale, oppure escono, vanno a bere un caffè al baretto del dopolavoro su via Edison. Dopo cinque mesi non ci sono più l’entusiasmo e la rabbia dell’inizio. Ritornano col passo pigro, la sigaretta in mano, gli occhi stanchi. È il tempo che è cambiato, il tempo da ingannare qui durante il turno da disoccupati, quello del sonno, il tempo sempre più incerto della vita privata, il tempo dei cupi ragionamenti, delle improvvise speranze deluse, i minuti che mancano alla fine di un’altra giornata.
Diego che è anche Rsu della Fiom-Cgil, rappresentante eletto dai lavoratori, è il più agguerrito e inquieto di tutti i 52 irriducibili che si battono contro la chiusura, uno dei pochi con una vera coscienza politica. Cammina svelto mentre lo seguo all’aperto sulla strada asfaltata che porta al reparto barre, sotto ci sono gli spogliatoi, con gli armadietti azzurri degli operai, tutti in fila, con sopra gli scarponi
antinfortunistici. Ognuno di loro è una storia. Se una volta ci trovavi scritti sopra a pennarello gli slogan o i simboli delle organizzazioni politiche, adesso sono i campioni sportivi o i gruppi musicali a farla da padroni, foto di attrici avvenenti, band musicali. Alcuni hanno le ante spalancate, li occupavano lavoratori che sono andati via, dentro ci sono ancora le tute da lavoro sciupate, gli accappatoi, i flaconi del bagnoschiuma. Alcuni sono stati sventrati, staccati gli sportelli che penzolano obliqui. «Mentre noi eravamo in cassa integrazione, questi andavano a lavorare in trasferta nelle altre fabbriche del gruppo raddoppiando lo stipendio, qualche dispetto è stato fatto», dice allargando le braccia. «A casa mia l’hanno presa male»: adesso abbassa il tono della voce; la sua compagna gli ha detto che deve cercarsi presto un nuovo lavoro, deve fare in fretta perché hanno due figli di sei e otto anni ai quali dare un futuro. «È finita la serenità, i rapporti si sono raffreddati». Quando la smettete? — gli chiede la moglie; quando finisce questa maledetta occupazione? Più di ottanta lavoratori non hanno retto, «ti chiamavano in direzione facendoti l’offerta di un anno e mezzo di stipendio», così hanno firmato quella che in gergo chiamano la «tombale», «una carta dove non puoi rivalerti più giuridicamente con l’azienda», 12 o 18 mesi per quelli che hanno più di cinquant’anni. Come ha detto un suo compagno, Marco Tabarro, citando il cartone South Park: «Cosa scegli, panino alla merda o peretta gigante?». Invece i suoi genitori lo sostengono. Sua madre è stata sindacalista di base alla Toma, un’azienda che fa abiti da lavoro nelle Marche e negli anni Ottanta licenziò metà del personale. Lui era un bambino, però ricorda le assemblee che si tenevano in casa sua. «Allora gli operai erano molti di più, prima una crisi la potevano percepire in tanti; adesso sono pochi quelli che la possono comprendere davvero. Ti hanno abituato a essere passivo,