Corriere della Sera - La Lettura
Tutto il mondo è prigione Anche le nostre città
Please Come Back. Il mondo come prigione? è il titolo della mostra, dal 9 febbraio al Maxxi di Roma, in cui 26 artisti esplorano in 50 opere la reclusione come metafora della contemporaneità. Un’invocazione, ispirata all’omonimo lavoro del collettivo Claire Fontaine (installazione, 2008: foto sopra di Florian Keinefenn), densa di nostalgia per una libertà non più praticabile. «Oggi la prigione non è solo una forma di chiusura architettonica — scrivono Hou Hanru e Luigia Lonardelli, i curatori — ma anche una rete aperta che penetra in ogni angolo delle nostre vite». Perché la tecnologia, se ci dota di strumenti di scoperta, permette anche di controllarci, di smantellare la privacy e, in nome della guerra al terrore, di applicare metodi disciplinari alle comunità. E se il controllo è pervasivo, le prigioni assumono sembianze multiformi, esplorate nelle tre sezioni dell’esposizione. Dietro le mura, in cui artisti come Gülsün Karamustafa, detenuta in Turchia negli anni 70, raccontano l’esperienza della reclusione; Fuori le mura, dedicata alla riflessione sulle carceri invisibili, come le città (avviene nell’opera di Mikhael Subotzky che usa immagini di telecamere a circuito chiuso); Oltre i muri, in cui autori come Jananne Al-Ani, che riproduce la prospettiva di un drone in Medio Oriente, mostrano la sorveglianza dopo l’11 settembre. «Viviamo in prigioni di vetro costruite su fondamenta algoritmiche», scrive Tiziano Bonini nel catalogo. Non ci resta che il gesto creativo, liberatorio, e il dovere di rispondere alla domanda evocata dal titolo: che cosa vogliamo ritorni dal passato per salvare le nostre esistenze?