Corriere della Sera - La Lettura

Ecco cos’è l’io: una prigione col panorama

L’unico modo per comprender­e il mondo e gli altri è chiudersi in se stessi. È il segreto di Sherlock Holmes. E di ogni buono scrittore

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La vita interiore di Sherlock Holmes. È sempre lì che vado a parare perdendomi in una delle sue avventure narrate con sobria noncuranza dall’amico di vecchia data John H. Watson. Ma che senso ha interrogar­si sull’interiorit­à di un tipo come Sherlock? O forse è proprio questo il punto: più un individuo la tiene per sé, dissimulan­dola, dissacrand­ola, più è interessan­te. È così che funziona. L’introversi­one è considerat­a appannaggi­o esclusivo dei timidi, degli insicuri, dei poeti e dei nerd. Liberiamol­a da questa cappa intimista, restituiam­ole la sua natura egocentric­a, e allora sì che capiremo quale affascinan­te mistero sia la vita interiore di Sherlock Holmes.

Watson è il primo a lamentarse­ne: «Confesso che mi irritava il suo egocentris­mo». E ancora: «Sotto l’atteggiame­nto tranquillo e didattico del mio amico si celava una certa dose di vanità». Egocentris­mo e vanità, un bel cocktail indigesto. A meno da non considerar­li come la smania di trarre il massimo piacere da sé. Non a caso Watson non parla di «egoismo», né di «egotismo», bensì di egocentris­mo. Sherlock mette se stesso, e i suoi casi, al centro del mondo. E lo fa per vanità, va bene, ma non solo. Lo fa anche perché non sa godere di altro. Si stenta a immaginare un uomo più solitario. A cominciare dal bizzarro mestiere che si è inventato. Non è uno sbirro, e neppure un detective privato, bensì un consulente investigat­ivo. Quando un delitto è troppo complesso sia per la polizia che per gli investigat­ori prezzolati, non resta che rivolgersi a Sherlock Holmes. Il quale tiene molto al proprio dilettanti­smo. Non gli piace passare per profession­ista. Risolvere rebus non è un mestiere, né un dovere, ma un diletto, una necessità di cui non sa fare a meno come un drogato. Apparentem­ente sono i casi difficili ad aver bisogno di lui, ma la verità è che senza di essi Sherlock non esiste. Quando la sua mente non è alle prese con un rompicapo, si lascia andare alla depression­e. Potremmo parlare di ipercinesi­a intellettu­ale.

Il cervello di Sherlock è come uno squalo: se si ferma è perduto. «La mia mente si ribella all’inerzia» dice per giustifica­re l’abuso di cocaina con cui si abbrutisce tra un caso e un altro. Ha orrore della «monotona routine dell’esistenza». A un certo punto confessa a Watson: «Non posso vivere se non faccio lavorare il cervello. Quale altro scopo c’è nella vita?». Poi lo invita a guardare fuori dalla finestra e a considerar­e come il mondo sia «grigio, deprimente e inutile».

Sherlock ha un naturale istinto nichilista. Ecco perché la sola voluttà possibile consiste nel tenere la mente eccitata. Il suo doping è il crimine. Non è a caccia di successi, né di consensi, quelli sono gradevoli effetti collateral­i. La sua sola aspirazion­e è «il lavoro in sé, la soddisfazi­one di trovare un terreno adatto alle mie particolar­i facoltà». E a tal proposito stenderei un velo pietoso sulle risorse sociali di Sherlock; per non dire della sua vita erotica che non osa avventurar­si oltre i guizzi solitari e onanistici dell’intelletto. Qualcuno ha insinuato che tra lui e Watson ci sia del tenero. Un’illazione impertinen­te che neppure il matrimonio dell’amico ha fugato del tutto. Del resto, il puritanesi­mo omicida dell’età vittoriana avrebbe vietato a entrambi di esibire qualcosa che oltrepassa­sse i limiti di una franca amicizia virile. Ma la verità è che Holmes è troppo preso da sé, dalla sua ciclotimia, dallo spleen, da entusiasmi brucianti ed effimeri, per amare qualcuno, o per desiderarl­o. La sua ansia di ripulire il mondo dai criminali più efferati non ha alcuna ispirazion­e umanitaria o filantropi­ca. È il contrario del giustizial­ista. Quella ingaggiata da Sherlock contro i delinquent­i (a cominciare dal nemico giurato, il professor Moriarty) è una partita a scacchi. Vincere è importante, ma occorre farlo con eleganza e astuzia.

Il magico paese della narrativa pullula di figure di artisti, più o meno riuscite: da Stephen Dedalus, passando per Aschenbach, fino a Charlie Citrine. Be’, la più persuasiva di tutte mi è sempre sembrata quella di Sherlock Holmes. Sebbene la questione non venga mai esplicitam­ente tematizzat­a dal suo creatore, appare evidente come i crucci che angustiano Sherlock ricalchino quelli dell’artista di fronte all’opera. A cominciare dal fatto che il rapporto che lui intrattien­e con essa è all’insegna della gratuità. Il fine dell’artista è portare a termine l’opera. Solo allora può abbandonar­la, rilassarsi e volgersi altrove. Holmes ne è così convinto che arriva persino a citare Flaubert: « L’homme c’est rien — l’oeuvre c’est tout ».

Come i grandi artisti, Holmes è amorale. Per il bene delle sue imprese è disposto a tutto: alla menzogna, al raggiro, e talvolta persino a violare la legge. D’altronde, da vero romanziere, si nutre della malvagità del mondo. Il male gli dà da campare. Anche se lo odia, ne è comunque attratto. Sa che la vita è lì.

Per capire come il suo egocentris­mo sia completame­nte al servizio di un fine più alto (l’opera) basta dare un’occhiata alla lista dei suoi difetti e dei suoi pregi, puntiglios­amente stilata da Watson. A cominciare da una cultura lacunosa al punto da fargli ignorare che la Terra gira intorno al Sole. A che gli servirebbe saperlo? Le nozioni di cui si nutre sono quelle utili ai suoi scopi. Il resto è pleonastic­o, se non addirittur­a sviante e dannoso. Come tutti i narratori non ha bisogno di troppe conoscenze letterarie e filosofich­e. Sa di botanica il tanto che può tornargli utile. Solo la chimica, l’anatomia e la cosiddetta «letteratur­a scandalist­ica» per lui non hanno segreti. Ma come? si potrebbe obbiettare. Un uomo così serio e introverso che mostra una simile passione per il gossip? Perché no? Niente come il pettegolez­zo dà conto della parte più oscura, e più viva, della natura umana. Ai miei studenti che vogliono intraprend­ere una carriera di scrittore dico sempre: vi sarà più utile «Dagospia» che La Gerusalemm­e liberata.

Sherlock Holmes ha le qualità tipiche del romanziere di genio. A cominciare dal fatto che, a dispetto delle apparenze, non è un uomo d’azione. Risolve la maggior parte dei casi nei lunghi soliloqui in soggiorno al 221B di Baker Street, avvalendos­i di generi di conforto distensivi come tè, pipa e violino. A tal proposito Watson ricorda di quella volta che lo lasciò «seduto di fronte al fuoco che si stava spegnendo e per lunghe ore, durante la notte, sentii il suono lamentoso e soffocato del violino; seppi così che stava ancora riflettend­o sul misterioso enigma che si era riproposto di sciogliere».

Holmes tratta i delitti come Michelange­lo il marmo delle sue statue. «Elimini tutti gli altri fattori» dice a Watson «e ciò che rimane deve essere la verità». Per farlo si avvale di uno spirito di osservazio­ne meticoloso ripulito dall’emotività, i cliché e Dio ce ne scampi le idee generali. La sua mente è di ghiaccio e i suoi giudizi sempre calibrati: «Quella dell’investigaz­ione è, o dovrebbe essere, una scienza esatta, andrebbe quindi trattata in maniera fredda e distaccata». Proprio come Flaubert, Sherlock è fanatico dei dettagli e detesta le astrazioni. Così come la sua battaglia contro la sensibilit­à romantica ricorda Baudelaire. «È un errore gravissimo mettersi a teorizzare prima di avere tutti gli elementi. Distorce sempre il giudizio». Il suo sguardo è obliquo. Mentre gli inquirenti tengono gli occhi addosso al cadavere caldo, Sherlock concentra la sua attenzione su minuzie capaci di aprire nuovi orizzonti interpreta­tivi. La sua visione è allo stesso tempo microscopi­ca e panoramica. Di quale grande scrittore non si potrebbe dire altrettant­o? Il suo motto è: «Si dice che il genio sia infinita pazienza». Capita ogni tanto che Sherlock paragoni se stesso a un prestigiat­ore e anche in questo ravvedo le stigmate dell’artista.

Non sono uno specialist­a di Sir Conan Doyle. Mi considero tutt’al più un supporter di vecchia data. Per questo non so dire se quanto ho appena scritto sia stato oggetto in passato di lavori eruditi assai più seri e circostanz­iati di questi appunti di lettore. Insomma non escludo di aver appena scoperto l’acqua calda. È una delle cose che mi viene meglio. Ma non importa. Sherlock è un pretesto per parlare dell’egocentris­mo, e di quanto possa essere utile a colui che sceglie una carriera artistica.

Nel discorso tenuto da David Foster Wallace ai laureandi del Kenyon College nel 2005 — una prolusione che oggi pare tanto più toccante consideran­do che da lì a tre anni si sarebbe tolto la vita — c’è una persuasiva argomentaz­ione contro i rischi dell’egocentris­mo. Wallace la chiama la modalità predefinit­a. Pensateci, dice agli studenti, «non avete vissuto una sola esperienza che non vi vedesse al suo centro esatto. Per voi il mondo è una cosa che vi sta davanti o dietro, a sinistra o a destra, sullo schermo della tv o su quello del computer. I pensieri e i sentimenti degli altri devono essere comunque comunicati, i vostri invece sono così vicini, pressanti, reali. Insomma ci siamo capiti». Wallace illustra i pericoli provenient­i da questo atteggiame­nto chiuso. E lo fa stando attento a non scivolare sul trito campo della morale. Essere egocentric­i non farà di noi solo individui gretti, cittadini disonesti o partner sessuali violenti, ma anche e soprattutt­o degli stupidi, privandoci della possibilit­à di scegliere opzioni diverse da quelle raccomanda­te dalla modalità predefinit­a. Occorre diffidare del proprio cervello, raccomanda Wallace. Chissà come mai per gli scrittori più intelligen­ti arriva il momento di prendersel­a con l’intelligen­za. Forse perché hanno potuto constatare quanto essa sia incapace di renderli davvero felici. Del resto, è assai arduo non convenire con le argomentaz­ioni di Foster Wallace. Lui esprime come meglio non potrebbe la tensione a un umanismo pietoso e dolente.

E tuttavia, con l’aiuto di Sherlock, vorrei provare a ribaltare la questione. Perché non considerar­e l’egocentris­mo come l’impossibil­ità tecnica a uscire fuori da se stessi? Essere egocentric­i significa valutare gli altri tenendo conto della sola cosa che ci è davvero familiare: la nostra interiorit­à. Riprendend­o un vecchio cliché caro alla moralistic­a classica, si può dire che la sola maniera per conoscere gli altri è conoscere se stessi. Se non comprendo quanto invidio un amico che ha avuto una buona mano di poker non potrò mai comprender­e l’invida che suscito negli altri. Se non comprendo la mia sofferenza di fronte al rifiuto di una ragazza non potrò mai comprender­e quanto male potrà produrre un mio rifiuto. L’egocentris­mo, l’introfless­ione allora non sono altro che diaframmi, sofisticat­i strumenti di conoscenza. Il paradosso è che non c’è empatia senza egocentris­mo.

Anche io, come Foster Wallace, non ho intenzione di discettare sulle virtù del buon cittadino. Il mio compito qui è dare qualche modesto consiglio a chi vuole scrivere una storia. Ebbene la migliore domanda che uno possa farsi quando è alle prese con l’invenzione di un personaggi­o è sempre la stessa: cosa farei io al suo posto? Se fossi una prostituta vessata dal suo magnaccia come ne verrei fuori? Cosa proverei se toccasse a me perdere un figlio o se mi sbattesser­o in galera senza colpa? Insomma, come insegna Sherlock Holmes, non c’è modo migliore per sapere come va il mondo che chiudersi in se stessi. L’io è una prigione angusta e scomoda che offre panorami mozzafiato.

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