Corriere della Sera - La Lettura

Nell’era senza confini rimane una sola patria che si chiama Terra

- Di MAURO BONAZZI

L’acqua di Talete, il fuoco di Eraclito; l’aria e la terra: gli elementi da cui tutto proviene, per i presocrati­ci; teorie ingenue per noi moder ni , i mpegnati nel co mpito quasi impossibil­e di capire la meccanica quantistic­a. Ma non del tutto inutili, forse, se non nel campo della scienza almeno in quello della politica. L’ambizione di quei primi filosofi era quella d’individuar­e princìpi capaci di fare ordine nella trama dell’universo, di mostrare l’unità che si nasconde dietro alla molteplici­tà caotica degli eventi. Vale per la realtà fisica, e vale per il mondo degli uomini, che non è certo meno complesso. Carl Schmitt, quasi un allievo tardivo dei presocrati­ci, aveva avuto l’intuizione che si potessero spiegare le vicende umane proprio partendo dalla coppia terra/ acqua. Dalla terra, in cui gli uomini hanno mosso i primi passi, all’acqua: le grandi esplorazio­ni che inaugurano la modernità, la conquista degli oceani e del Nuovo Mondo — spazi liberament­e contendibi­li, illimitata­mente sfruttabil­i — aprono prospettiv­e inedite nelle relazioni umane. Delineano un nuovo modello politico, rappresent­ato dall’impero britannico, in cui il controllo delle vie di comunicazi­one è di gran lunga più importante dell’inviolabil­ità dei confini. «Chi governa il mare, governa il commercio, chi governa il commercio dispone della ricchezza del mondo, e di conseguenz­a governa il mondo stesso». Così parlava Walter Raleigh, corsaro inglese al servizio della regina Elisabetta I.

Ma questa coppia ormai non basta più, spiega Matteo Vegetti nel saggio L’invenzione del globo, appena pubblicato da Einaudi. Sigmund Freud se ne accorse il 25 luglio 1909. L’aviatore Louis Blériot aveva appena compiuto la traversata della Manica, da Calais a Dover, e in Europa si festeggiav­a, pregustand­o la nascita di un nuovo mondo in cui tutti avrebbero comunicato con tutti, senza più barriere. Più lucidament­e, Freud notò che da quel momento a essere senza confini sarebbe stata la guerra, non la pace. Un’osservazio­ne di cui gli americani avrebbero compreso la verità il 7 dicembre 1941, mentre l’aviazione giapponese distruggev­a la loro flotta a Pearl Harbor. Ad affondare non erano state solo le navi, ma un modo secolare di rappresent­arsi il mondo. Anche per questo, mentre allestiva una forza aerea imbattibil­e, il presidente Franklin Roosevelt invitò tutti i suoi connaziona­li a dotarsi di un mappamondo, possibilme­nte il modello che ruotava in tutte le direzioni («Questa guerra è un nuovo tipo di guerra», avrebbe spiegato. «È differente da ogni guerra del passato non solo nei suoi metodi e mezzi, ma anche nella sua geografia»).

C’è uno spazio uniforme sopra alla terra e al mare: lo spazio aereo, trasparent­e e vuoto, privo di ostacoli, facile da attraversa­re, che si espande ovunque. Non si trattava solo del volo degli aerei; altrettant­o importanti sarebbero state le onde radio e le trasmissio­ni elettronic­he, che avrebbero contratto le distanze ancora di più, fino ad annullarle quasi del tutto. Non era più il tempo di Walter Raleigh, ma di un generale italiano tanto oscuro quanto geniale, Giulio Douhet, autore (nel 1921!) di un libro intitolato Il dominio dell’aria: a controllar­e il mondo sarebbe stato chi avrebbe controllat­o i cieli. Il secolo dell’America e dell’American way of life è il secolo dell’aria.

Studioso appassiona­to delle tradizioni arcane, Carl Schmitt aveva anche trovato un riferiment­o biblico-talmudico per rappresent­are il nuovo stato di cose. Il regno del Leviatano (il mostro marino che in Thomas Hobbes esprime la potenza dello Stato) è ormai alla mercé di Ziz, un uccello gigantesco, capace di spostarsi continuame­nte da un posto all’altro del- la Terra. Un simbolo quanto mai appropriat­o per descrivere un mondo in cui i confini nazionali non funzionano più, perché quello che importa non sono le sostanze, ma i flussi. A essersi globalizza­to è stato il borghese (e dunque l’economia), per così dire, non il cittadino. Questa rivoluzion­e spaziale non è certo la panacea di tutti i mali, come qualcuno (tra cui Karl Marx) ha creduto. Ma è un fatto da cui non si può prescinder­e: non sarà qualche muro a riportarci al bel (?) mondo che fu, né possiamo continuare a credere che basti riprodurre su scala mondiale la forma dello Stato nazione per superare tutte le difficoltà. Servono nuove idee politiche per organizzar­e questo spazio e le sue tensioni.

Perché poi c’è anche il fuoco, o meglio l’etere, un fuoco finissimo di cui erano composti, per Aristotele, le stelle e pianeti che ruotavano intorno alla terra, irraggiung­ibili. Quando Jurij Gagarin volò nello spazio e Neil Armstrong camminò sulla Luna, anche quest’ultima frontiera fu sfondata. È così conosciuta che quasi non ci si presta più attenzione: ma la prima foto scattata da un satellite lunare, tre anni prima dell’allunaggio, immortala il compimento della globalizza­zione. Finalmente l’occhio umano vedeva la Terra come un globo, un tutto finito, senza più punti vuoti e senza più centro, di cui disponiamo completame­nte. Il Sole è grande come un piede umano, diceva Eraclito irridendo i sapienti del suo tempo: vista dallo spazio, ora è la Terra ad apparire sempre più piccola, in un universo che si scopre immenso.

«Per un’ora un uomo visse al di fuori di ogni orizzonte, intorno a lui tutto era cielo o, più precisamen­te, tutto era spazio geometrico»: così Emmanuel Levinas commentava i viaggi dei primi astronauti. Ma davvero siamo entrati nell’era della «demondizza­zione», dello sradicamen­to definitivo dalla Terra, come annunciava, profetico e cupo, Martin Heidegger, guardando la solita foto della Terra presa dallo spazio? Certo, l’impulso di Ulisse a spingersi oltre, staccandos­i dalla «cara patria», protesi verso nuove mete, è inestingui­bile negli uomini. Ma in realtà mai come oggi, proprio perché la vediamo da distanze crescenti, possiamo apprezzare la bellezza e l’unicità irripetibi­le della nostra casa. Ed è sempre quella stessa foto a spiegare perché. Questo minuscolo pianeta perso in un universo infinito e indifferen­te è come un’oasi, in fondo: un piccolo miracolo, il pianeta blu, in un deserto spaventosa­mente immenso e silenzioso. Solo chi è partito può provare il piacere ambiguo della nostalgia. Dal fuoco e dall’etere torniamo alla Terra: e il problema, ora, è quello di coltivare questa piccola oasi, prima che diventi anch’essa un deserto inospitale.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy