Corriere della Sera - La Lettura

Cerchi la cima, muori radice

Hugo Mujica, dal Greenwich Village al sacerdozio

- Di DANIELE PICCINI

Ci sono autori la cui stessa vita è leggenda: è il caso di Hugo Mujica, nato a Buenos Aires nel 1942, poeta e saggista. Rimasto orfano di padre da bambino, grande viaggiator­e, egli attraversa situazioni disparate e lontane: frequenta il Greenwich Village di New York negli anni Sessanta occupandos­i di arte e della connession­e tra allucinoge­ni e creatività, è amico di Allen Ginsberg, si sprofonda quindi in diverse esperienze spirituali. Per sette anni conduce vita monastica, nell’ordine trappista, per poi essere ordinato sacerdote. I suoi interessi spaziano dalla filosofia all’antropolog­ia alla teologia.

Si direbbe che quanto è varia e mobile la vicenda del personaggi­o, tanto la sua poesia, nata in età matura, sia condensa- zione, sintesi, unità. Nell’opera in versi di Mujica, ora ripercorri­bile nella Antologia poetica 1983-2016 (traduzione di Roberta Buffi, LietoColle), si attua infatti un continuo filtraggio: la poesia è ciò che resta. E il processo avviene attraverso una ricerca drammatica, che transita per il mutare e il trasformar­si di ciò che è: «All’inizio si cerca/ la cima, poi, caduta dopo caduta,/ si muore radici».

La parola di Mujica è un taglio, una fenditura, da cui emergono impronte, tracce labili di un’assenza-presenza. Tendere, attraverso i contrasti e le antitesi, a uno stato nascente, all’impensabil­e, sembra essere il destino di questa scrittura: «C’è soltanto quello che sempre c’è,/ c’è questo stare nascendo».

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