Corriere della Sera - La Lettura
Il museo globale
Spazio a Cina e Giappone, India e Polinesia, Islam e Sud del mondo Il British Museum lancia un programma di esposizione totale
Un museo globale per un mondo sempre più interconnesso. È l’ ambizione delBritis hM useum, la più importante istituzione culturale britannica: che ha lanciato un progetto «per i prossimi dieci anni e oltre» con l’obiettivo di «assicurare la propria rilevanza per le generazioni a venire». E la strategia scelta è proprio quella di declinare la britannicità come apertura sul mondo e sulla sua molteplicità.
In concreto, questo significa una maggiore enfasi per le gallerie dedicate a Cina, India e Giappone; una galleria ex novo consacrata interamente all’islam; più spazio ad aree come la Polinesia e altre zone del Sud del mondo attualmente sotto rappresentate nell’esposizione permanente. Il British Museum infatti esibisce circa 50 mila oggetti rispetto a una collezione di otto milioni di pezzi: ma più di un terzo della massa terrestre presente nella collezione è sottratto alla vista del pubblico. Ora tutto questo cambierà.
Come ha spiegato il direttore Hartwig Fischer, l’ultimo anno ha visto accavallarsi turbolenze politiche e traumi sociali, dal terrorismo all’incendio della Grenfell Tower: e anche il museo è chiamato a offrire una risposta al mutato sentimento pubblico. «La britannicità del British Museum — ha detto Fischer — è sempre stata la sua responsabilità nazionale e globale. È un museo del mondo e per il mondo».
Dunque si parte questo novembre con la rinnovata galleria di Cina e Asia meridionale. Per la prima volta, accanto a sculture, ceramiche e giade saranno esposti dipinti e tessuti. Ha spiegato Jane Portal, curatrice dell’Asia: «Come si può raccontare la storia della Cina senza la seta e quella dell’India senza il cotone?». Ma a fianco alle sculture del Kashmir del VI se- colo ci sarà anche il sitar appartenuto a Ravi Shankar, il musicista indiano padre della cantante Norah Jones.
Il fulcro del rinnovamento sono le nuove gallerie del mondo islamico, che apriranno nell’autunno del 2018. Sarà raccontato tutto l’arco della storia musulmana, dalle origini al presente, attingendo da Medio Oriente, Turchia, Asia centrale, meridionale e sudorientale. Un primo spazio si concentrerà sul periodo fino al 1500, mettendo in luce lo sviluppo delle arti sotto le grandi dinastie medievali. Nel secondo spazio i visitatori troveranno oggetti che illustrano le vette di creatività sotto gli Ottomani e i Mogul: ceramiche, gioielli e dipinti che sono fra le glorie della collezione del museo. Ma il tema centrale sarà il legame fra le culture, non solo grazie all’illustrazione degli estesi rapporti commerciali fra l’islam e gli altri mondi, ma anche mostrando la vita delle altre comunità all’interno dell’universo musulmano: e quindi oggetti cristiani, ebraici, indù.
Nell’autunno del 2018 sarà riaperta anche la rinnovata galleria giapponese, che sull’onda del successo della mostra dedicata a Hokusai mostrerà un ampio ventaglio di stampe rare, reso possibile da un nuovo sistema di illuminazione.
Ma tutto il senso di questa rivoluzione espositiva non si esaurisce certo nella curiosità antiquaria. È un vero progetto politico: «In un mondo che cambia rapidamente e che a volte ci spaventa — ha spiegato Fischer — il museo deve continuare a svolgere la sua parte nell’illustrare la connessione delle culture e la nostra umanità condivisa. Mai come adesso questo si rende necessario».
Dunque le tre nuove gallerie «ci aiuteranno a raccontare la storia interconnessa del mondo — ha aggiunto il direttore —. Tutto questo è tenuto assieme dall’ambizione di voler continuare a mantenere il nostro posto al centro della cultura globale, un posto dove tutti noi possiamo essere aiutati a comprendere i cambiamenti nel mondo». «La nostra visione — ha concluso Fischer — sarà quella di creare un museo che attraverso le storie degli oggetti metta in grado di comparare culture ed epoche. Questo implica una nuova narrativa per le collezioni, un’enfasi sull’interconnessione delle culture».
La trasformazione del British Museum riflette d’altra parte quella di una società dove la definizione di «britannico» è sempre più multiculturale e postrazziale. Basti pensare che uno dei personaggi-simbolo più popolari è Sir Mo Farah: cioè il giovane nato in Somalia che è arrivato in Inghilterra a otto anni senza parlare una parola d’inglese, ha preso la cittadinanza, è diventato campione olimpico ed è stato fatto Sir dalla Regina. Una storia difficilmente replicabile in altri Paesi. Come difficilmente replicabile è avere sindaco della capitale un musulmano figlio di un autista d’autobus pachistano come Sadiq Khan. Oggi tutto questo è «britannico», al pari del fish&chips e dell’Union Jack. E il British Museum si adegua.
La sua internazionalizzazione è testimoniata anche dal ruolo di «prestatore» più generoso di oggetti d’arte nel mondo: da Londra sono partiti nell’ultimo anno 2.200 oggetti diretti verso 113 musei e gal- lerie sparsi per il globo. In Australia sono arrivati manufatti aborigeni mentre a Delhi è giunto un importante contribuito a una mostra sulla religione zoroastriana. E la Storia del mondo in 100 oggetti è stata vista da quasi un milione e mezzo di persone, dalla Cina all’Australia. Mentre a novembre un importante prestito consentirà l’apertura a Mumbai, in India, della mostra L’India e il mondo: una storia in nove racconti.
Il salto nel futuro è anche tecnologico. «Il digitale svolgerà un ruolo molto maggiore», ha annunciato il direttore, in modo da comprendere meglio gli interessi dei visitatori e dar vita a guide e tour «su misura». Sarà possibile per esempio vedere il Rotolo delle Ammonizioni, uno dei tesori della pittura cinese, usando un touchscreen per ammirare meglio le scene del fragile oggetto. E le piattaforme digitali consentiranno agli appassionati da tutto il mondo di interagire con le collezioni del museo: il suo seguito sui social media ha superato i tre milioni e mezzo di persone, dando luogo a sperimentazioni con video a 360 gradi e trasmissioni live. Il sito web riceve quasi dodici milioni di visite e tramite Google StreetView si può ora passeggiare attraverso le gallerie da qualunque punto del mondo.
Nel futuro del British Museum c’è anche un recupero del suo passato più glorioso: la mitica Reading Room della biblioteca, quella dove Karl Marx scrisse Il capitale, sarà riaperta al pubblico e utilizzata come spazio per mostre. Il museo sta ancora discutendo come fare, perché ogni progetto deve fare i conti con le file di tavoli di mogano che si irradiano dal centro dell’edificio storico. Ma il direttore promette che costituirà una parte «sbalorditiva» del futuro museo. Il meglio deve ancora cominciare.
«Le tre nuove gallerie ci aiuteranno a raccontare la storia interconnessa del mondo. Vogliamo comparare culture ed epoche»