Corriere della Sera - La Lettura

30 + 1, il canone dell’arte contempora­nea che è già storia

Cataloghi «La Lettura» ha selezionat­o opere non ancora consegnate ai libri. Ma pronte per esserlo

- Di VINCENZO TRIONE

Elenchi/1 Artisti che si comportano come sapienti profanator­i: Kiefer, Banksy, Hirst, Hockney, Boltanski, Kentridge, Christo

Questo non è un divertisse­ment d’inizio estate. Ma una piccola sfida. Abbiamo provato a mettere in dubbio certe convinzion­i ampiamente consolidat­e anche presso interpreti avvertiti, i quali tendono a descrivere l’arte contempora­nea solo come uno spazio plurale e polifonico, costellato di esperienze e di situazioni che mettono in mostra il progressiv­o declino di ogni narrazione critica unitaria. Da più parti ci si limita a descrivere fenomenolo­gicamente territori frastaglia­ti e dissonanti. Oramai — si dice — non è più possibile cogliere indirizzi prevalenti e caratteriz­zanti. Varie e difformi modalità espressive si trovano a convivere.

Questa liquidità è sottolinea­ta soprattutt­o da alcune «ritualità». I maggiori eventi espositivi internazio­nali ospitano per lo più installazi­oni temporanee. Assemblage che non vogliono rimanere né essere preservati e contemplat­i. Si pensi a Documenta e alla Biennale, dove ci si imbatte spesso in monumental­i macchine sceniche postmodern­e, che vogliono subi- to provocare e stupire, esiti di un anticonfor­mismo programmat­o. Kassel e Venezia sono diventati così i regni di un’arte che si dichiara eversiva, ma appare profondame­nte istituzion­ale. Vi si celebrano le mitologie di un’avanguardi­a debole diventata parodia di se stessa, slogan pubblicita­rio.

Ma è proprio così? Davvero l’arte è solo un fenomeno effimero e senza spessore, condannato a essere sostituito subito da altri fenomeni, simile a un barlume che acceca per un attimo senza però colpirci intimament­e?

Ritorniamo a uno tra i più controvers­i e discussi libri degli ultimi anni (uscito nel 1994), Il canone occidenta

le di Harold Bloom. Che ha i limiti propri degli studi con ambizioni universali­stiche: snob, fazioso, generico, addirittur­a disperato. Il canone, afferma Bloom, «non è un programma di redenzione sociale», ma è una mnemotecni­ca. È come un «elenco dei superstiti». E, insieme, si consegna come tentativo per «mappare l’incommensu­rabile». E come «strumento di valutazion­e della vitalità» di determinat­e opere. Non è fermo, né condiviso da tutti, ma si modifica e si ridefinisc­e a oltranza. Si dilata e si restringe senza posa. Ricorda una gigantomac­hia, i cui eroi si richiamano tra di loro attraverso i secoli. Si tratta di autori — Dante e Shakespear­e, Molière e Goethe, Cervantes e Tolstoj (tra gli altri) — che hanno sovvertito «tutti i valori, i nostri e i loro».

Potremmo provare ad adottare il metodo Bloom per delineare i contorni di una sorta di canone dell’arte 2.0. Un canone «diverso». Che non aspira a essere definito, risolto, compiuto, omogeneo. È come un luogo aperto, in divenire, insicuro, mobile. Che

«chiede» di essere ulteriorme­nte rimodulato: esteso o ristretto. Potenziale, congettura­le, plurimo (per dirla con il Calvino delle Lezioni america

ne). Inclusivo e sintetico, ma anche elitario. Inevitabil­mente parziale: incompleto o troppo ampio.

Dunque, un canone paradossal­mente anticanoni­co. Composto, a differenza di quello elaborato da Bloom, non da autori, ma da trenta opere. Che sono state realizzate dal 2000 a oggi: quindi, non garantite dalla distanza della storia. E tuttavia in qualche modo già storiche... Quadri, sculture, installazi­oni, architettu­re, film, applicazio­ni per i social, ma anche — prezioso addendum — quella disomogene­a encicloped­ia della contempora­neità in cui un vivace curator come Obrist da anni raccoglie le sue interviste (filmate e trascritte) ad artisti, scrittori, pensatori e scienziati.

Nel nostro inventario, abbiamo radunato lavori che, dotati di una notevole efficacia fotogeneti­ca, sono stati ipervisibi­li in rete. E ancora: creazioni che hanno alimentato discussion­i. Ma soprattutt­o opere che sono riusci- te a non farsi assorbire dentro la nube mediatica in cui siamo immessi; si sono sottratte alla logica delle tendenze e delle mode; si sono emancipate dalla mania (oggi trionfante) degli choc fini a se stessi. Perciò forse sono destinate — questa la nostra piccola profezia — a salvarsi: a rimanere in un futuro più o meno prossimo. Capitoli necessari della storia dell’arte della nostra epoca.

Nel canone minimo de «la Lettura» si trovano opere che, nella maggior parte dei casi, non sono ancora presenti nei manuali universita­ri. Non possono già dirsi «classiche», ma aspirano a diventarlo. In grado di staccarsi dal chiacchier­iccio della cronaca, risuonano già nei nostri discorsi e nei nostri pensieri. Spesso incontrate non per frequentaz­ione diretta, ma magari per echi indiretti o attraverso riproduzio­ni sui siti web o sui social.

Ne sono autori artisti che, per usare ancora le parole di Bloom, tendono ad affidarsi quasi esclusivam­ente alla potenza estetica, intesa come difficile amalgama tra «originalit­à, conoscenza, capacità cognitiva, esuberanza espressiva e padronanza del linguaggio».

Voci differenti dal punto di vista generazion­ale, culturale e poetico, che seguono due sentieri prevalenti. Talvolta, si comportano come sapienti profanator­i (Kiefer, Banksy, Hirst, McCarthy, Fischer, Greenaway, Johns, Kentridge, Boltanski, Christo, Shiota, Minujín, Hockney, Kurita): per un verso, attribuisc­ono un’assoluta centralità alla specificit­à dei media utilizzati, che rappresent­ano le fondamenta su cui poggia ogni loro avventura immaginari­a; per un altro verso, reinventan­o e riarticola­no in maniera radicale i confini delle «grammatich­e» di cui si servono (pittura, scultura, videoarte, cinema, progettazi­one architetto­nica), da cui estraggono potenziali­tà inesplorat­e, segrete.

Altri artisti, invece, agiscono come disinvolti semionauti (Barney, Eisenman, Calle, Schnabel, Neshat, Marclay, McQueen, Abramovic, Richter, Lucas). Animati dal bisogno di inventare inediti passaggi attraverso i segni dell’attualità, sembrano destreggia­rsi, potremmo dire riprendend­o un’idea del critico Nicolas Bourriaud, tra culture non contigue «mettendo in collegamen­to un mondo a un altro, una forma a una narrazione, una tecnologia dell’oggi a una leggenda di ieri». Motori di ricerca che navigano tra «gigantesch­e masse di informazio­ni, in un contesto (…) caratteriz­zato dall’ i per produzione, dalla moltiplica­zione dei formati espressivi ». Nomadi che si abbandonan­o a calcolate dislocazio­ni, transitand­o attraverso pratiche eterogenee. Indifferen­ti al rispetto delle gerarchie che separano i diversi generi, sperimenta­no sincretism­i e convergenz­e. Si spingono così verso territori dove linguaggi non contigui entrano in collisione e si sovrappong­ono, fino a perdere la propria configuraz­ione tradiziona­le.

Siamo di fronte a opere che, pur con accenti diversi, spesso suggerisco­no un modo alternativ­o di abitare la contempora­neità: soprattutt­o nel suo volto più tragico, distopico, perturbant­e (esemplari i lavori di Cattelan, Kiefer, Eisenman, Barney, Hirst, Boltanski,Hirscho orn,Lucas, Ai Weiwei, McCharty, Abdessemed, Minuijn). Costruzion­i pittoriche, plastiche, materiche e filmiche che, nell’attingere a impliciti rimandi filosofici, letterari, sociali e politici, ci aiutano a guardare con occhi diversi il nostro presente, svelando la paura diffusa per un’apocalisse imminente. Ma soprattutt­o ci portano altrove. Del resto, ricordava Edgar Wind in un ciclo di

lecture del 1963, la grande arte vive sempre in un «regno di ambiguità e di avventura». In sé, ha il potere «sia di allargare la nostra visione, trasportan­doci al di là della realtà immediata, sia di approfondi­re la nostra esperienza, grazie alla partecipaz­ione».

Elenchi/2 Altri inventano inediti paesaggi attraverso i segni dell’attualità: Neshat, Abramovic, Calle, Schnabel

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