Corriere della Sera - La Lettura
Sacco e Vanzetti caso aperto Ecco gli indizi (e i pregiudizi)
A novant’anni dall’esecuzione dei due anarchici italiani, considerati vittime del razzismo e della paura dei «sovversivi» negli Usa, riesaminiamo la vicenda giudiziaria che li vide condannati per rapina e duplice omicidio. Il processo non fu equo, ma contro almeno uno dei due imputati c’erano elementi da non trascurare
Questa è una brutta storia e, a distanza di novant’anni dal suo tragico epilogo giudiziario, ancora poco chiara, poiché controversa e non priva di punti oscuri. È la storia di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici appartenenti alla setta di Luigi Galleani, capo carismatico incline all’uso della dinamite. Iniziò con una rapina.
Quel giorno a South Braintree
South Braintree è un piccolo centro industriale situato una ventina di chilometri a sud di Boston, capitale del Massachusetts. Sono le tre del pomeriggio di giovedì 15 aprile 1920. Frederick Parmenter e Alessandro Berardelli, due impiegati del calzaturificio Slater & Morrill, escono dalla sede commerciale dell’azienda con due valigie contenenti le buste paga degli operai, in totale 15.776 dollari, per raggiungere a piedi la fabbrica, situata a poco più di 200 metri di distanza. Durante il tragitto, due uomini armati, veri professionisti della rapina sbucati all’improvviso, fanno succedere il finimondo, aprendo il fuoco. Colti alla sprovvista, impreparati a reagire, i due impiegati soccombono. Berardelli muore sul colpo, Parmenter, ancora vivo, ma in condizioni gravissime, morirà alle 5 del mattino del giorno seguente. Nel frattempo i componenti della banda, cinque in tutto, si sono dileguati con il bottino.
L’arresto dei due italiani
L’inchiesta venne affidata a Michael E. Stewart, un poliziotto di origine irlandese, assolutamente inesperto in questo genere di reati. Seguendo un’idea presumibilmente sbagliata, o forse no, Stewart cominciò a imboccare una pista anarchica, arrivando a concentrare i sospetti su un personaggio da considerarsi fulcro di questa storia, ossia il piccolo, brutto Big Nose («nasone») Mario Buda, alias Mike Boda, originario di Savignano sul Rubicone, in Romagna. Intelligentissimo, anarchico fanatico e violento, sempre un passo avanti agli sbirri, è a tutt’oggi considerato l’autore materiale dell’attentato dinamitardo di Wall Street del 16 settembre 1920, che provocò 38 morti. La sera del 5 maggio 1920 gli agenti Connolly e Vaughn fermarono due tipi sospetti a bordo di un tram: erano Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. E qui la faccenda prende subito una brutta piega. Vanzetti venne trovato in possesso di un revolver Harrington & Richardson calibro 38, con il tamburo a cinque colpi pieno e quattro cartucce a pallettoni per fucile calibro 12, mentre Sacco aveva in tasca una pistola semiautomatica Colt 1903 calibro 32 con colpo in canna, caricatore pieno contenente otto cartucce, più altre 23 cartucce di diversa marca, ma stesso calibro. Un’arma dello stesso tipo di quella usata per uccidere Berardelli. Perché i due anarchici circolavano armati, senza regolare licenza? Portati in manette al commissariato di Brockton, interrogati da Stewart, Sacco e Vanzetti replicarono istintivamente alle varie domande con una lunga sequela di bugie e contraddizioni senza fine, negando entrambi di conoscere Boda. Con tali premesse, venne convalidato il loro arresto.
Inizia il processo
Il 31 maggio 1921, in un’atmosfera che si preannunciava incandescente, ebbe inizio nel tribunale di Dedham il processo di primo grado per i crimini di South Braintree. Quale capo del collegio di difesa dei due imputati era stato scelto Fred H. Moore, un vanaglorioso avvocato californiano sfacciatamente radicale, la scelta peggiore che il Comitato per la difesa di Sacco e Vanzetti potesse fare in quel travagliato periodo di paura dei «sovversivi» e in quello Stato conservatore. Moore era affiancato dai fratelli Jeremiah e Thomas McAnraney. Rappresentante del Commonwealth (Stato) del Massachusetts era il procuratore distrettuale Fred G. Katzmann, assistito da Harold P. Williams, William F. Kane e George E. Adams. Presiedeva il processo il sessantatreenne panciuto giudice Webster Thayer, già tristemente noto non solo per una certa tendenza all’irascibilità, ma anche, cosa ancor peggiore, per il suo avverso pregiudizio nei confronti degli immigrati, specie se di estrema sinistra. È doveroso citare un singolare evento, accaduto prima dell’inizio del processo, che vide protagonisti Aldino Felicani, capo del Comitato di difesa, e una certa Angelina De Falco, interprete presso il tribunale di Dedham. La ragazza, in cambio dell’iperbolica somma di 50 mila dollari, destinata tuttavia a divenire oggetto di lunghe trattative, si sarebbe offerta di garantire la libertà dei due imputati, ponendo quale condizione il siluramento di Moore, che avrebbe dovuto essere sostituito dal fratello di Katzmann, il pubblico accusatore! Fu lo stesso Moore a far fallire miseramente la trattativa.
Difesa in scacco
I primi dibattimenti si presentarono difficili, in particolare per il manifesto e pericoloso astio tra Thayer e l’indisponente Moore, tendente troppo spesso a sollevare obiezioni nei modi sbagliati. Alla fine, quando ne ebbe fin sopra i capelli, il giudice urlò con la sua voce aspra: «Nessun avvocato radicale e dai capelli lunghi venuto dalla California deve dirmi come dirigere la mia aula di tribunale!» La situazione stava precipitando. Sarebbe stato necessario silurare l’inadeguato Moore, sostituendolo con il famoso William G. Thompson, il più eminente avvocato di Boston, già dichiaratosi disponibile ad assumere l’incarico. Il celeberrimo uomo di legge, elegantissimo nei modi e nel vestire, con la pipa di radica perennemente fra i denti, era un personaggio come pochi. La sua sola presenza in aula ridava fiducia agli assistiti, perfino nelle situazioni più drammatiche. Disgraziatamente, all’invito ad abbandonare la causa da parte di Jeremiah McAnraney, Moore rispose seccato: «No, mi dispiace. Le ricordo, avvocato McAnraney, che siete stati assunti quali miei assistenti e non per darmi ordini. Mi chiedo se siate in grado di comprendere, con la vostra mentalità provinciale, le ripercussioni mondiali che avrà questa causa».
Il dramma si stava già compiendo e ciò si può intravedere dalle ciniche e pur maledettamente vere parole del californiano, che aspirava a realizzare un esemplare processo politico. Quanto alla formazione della giuria, la scelta cadde su 12 cittadini di razza bianca, intelligenti, ma provenienti da una Boston troppo conservatrice, considerati rappresentativi, quindi degni di assumersi un così difficile e gravoso onere, soltanto dagli stessi funzionari governativi dai quali erano stati convocati.
La linea dell’accusa
Katzmann, per dimostrare la colpevolezza di Sacco, decise di adottare una strategia che sviluppò secondo alcune direttive principali: l’imputato, la mattina del 15 aprile 1920, si trovava a South Braintree; era stato lui a sparare a Berardelli; il proiettile fatale, indicato al processo come proiettile n. III o reperto 18, che aveva provocato il decesso di Berardelli, era stato sparato dalla pistola semiautomatica Colt 32 che Sacco portava al momento dell’arresto; uno dei bossoli rinvenuti vicino al cadavere di Berardelli, indicato al processo come bossolo Fraher W, era stato espulso dalla sua Colt 32.
Per quanto riguarda Vanzetti, il Commonwealth avrebbe cercato di dimostrarne la colpevolezza sulla base di questi elementi: la mattina del 15 aprile 1920, l’imputato era stato visto scendere alla stazione di East Braintree da un treno proveniente da Plymouth; la mattina stessa si trovava realmente a South Braintree; compiuta la rapina, era stato visto a bordo dell’automobile usata dai malviventi.
Il verdetto e i ricorsi
Il processo, che assunse spesso toni drammatici, condotto in modo a dir poco tendenzioso e pregiudizievole da un giudice prevenuto, si concluse il 13 luglio 1921, giorno in cui la giuria emise il verdetto di colpevolezza per entrambi gli imputati. Ma non era finita: fino a gennaio del 1927 vennero presentate ben sei mozioni di riapertura per un nuovo processo, le quali vennero tutte puntualmente respinte da Thayer. L’avvocato Thompson, dal 1923, si decise a collaborare alla difesa dei due imputati, divenendo nel 1924 unico difensore per entrambi, mentre Moore nello stesso periodo rassegnò ufficialmente le dimissioni, cacciato dallo stesso Sacco.
La confessione di Madeiros
L’ultima istanza presentata dalla difesa, la mozione Madeiros, resta la più interessante, anche se piuttosto oscura, non essendo del tutto chiari i motivi che avrebbero spinto un criminale incallito, quale era Celestino Madeiros, a decidere di collaborare con la giustizia. Ladro, bugiardo e spietato assassino, Madeiros risultava di fatto un individuo del quale diffidare. Uomo mentalmente ritardato, sofferente spesso di gravi crisi epilettiche, il venticinquenne portoghese, che in quel periodo era detenuto nel carcere di Dedham, lo stesso dove si trovava Sacco, rese a Thompson una confessione giurata, nella quale, scagionando i due anarchici, dichiarò di aver preso parte alla rapina di South Braintree, rifiutandosi tuttavia di fare i nomi degli altri componenti della banda. Il 23 ottobre 1926, Thayer respinse tale mozione. Ora restava solo la Corte Suprema del Massachusetts, che purtroppo il 5 aprile 1927 respinse il disperato ricorso di Thompson.
Condannati a morte
Spettò a Thayer, il successivo 9 aprile, pronunciare la sentenza di morte contro Sacco e Vanzetti. Il destino dei due anarchici era ormai riposto soltanto nella coscienza del governatore Alvan T. Fuller, che decise di conferire prima con Madeiros, poi con i due italiani. Prevedendo una conclusione catastrofica dei suoi accorati quanto inutili appelli, Thompson aveva già deciso di giocarsi quest’ultima carta, ma alle 11.25 del 3 agosto 1927, Fuller rese noto di aver respinto la domanda di grazia. Fu il boia Robert G. Elliott che si occupò dell’esecuzione dei tre condannati. Alle 00.03 esatte del 23 agosto 1927, Madeiros, in un pietoso stato di semincoscienza, entrò per primo nella stanza della sedia elettrica, seguito poi da Sacco e infine Vanzetti. Alle 00.26 tutto era compiuto.
I dubbi restano
Sono trascorsi novant’anni dalla conclusione di questa storia, eppure alcune domande restano senza risposta. La vicenda presenta ancor oggi troppi segreti, celati dietro gli stessi personaggi che la vissero. Carlo Tresca, leader anarchico italiano di indiscussa popolarità negli Stati Uniti, disse nel 1943 al cronista del «New Yorker» Max Eastman la seguente enigmatica frase: «Al processo Sacco era colpevole, Vanzetti no».
Due sono i dubbi principali che restano aperti. Un primo punto accertato, dopo varie e ripetute perizie balistiche protrattesi fino al 1983, utilizzando strumenti sempre più sofisticati, è che il proiettile fatale, da cui fu ucciso Berardelli, proveniva senza ombra di dubbio dalla Colt 32 sequestrata a Sacco, e così il bossolo Fraher W rinvenuto sul luogo del delitto. Si tratta di sostituzione fraudolenta, o Sacco prese effettivamente parte alla rapina? E poi resta il dubbio sui veri autori del crimine. Moore fu sempre convinto che dietro il colpo ci fosse lo zampino di Boda, ma potrebbe esserne stata responsabile una nota gang di italo-americani, la banda Morelli, su cui erano caduti i sospetti dopo la confessione di Madeiros. In tal caso a sparare furono Joe Morelli e Tony Mancini, un gangster da rotocalco. Morelli, morto di cancro nel 1950 a settant’anni, indicò quali autori della rapina cinque anarchici italiani, fra cui Sacco, Vanzetti e Boda. D’altra parte suo fratello Frank, anch’egli prossimo alla fine, confessò di aver preso parte al colpo con Joe, confermando quindi la confessione di Madeiros. Non è mia intenzione gettare ombre su due personaggi che, a buon diritto, sono entrati a far parte della storia: i nomi di Sacco e Vanzetti, riabilitati nel 1977 da Michael Dukakis, in quegli anni governatore dello Stato del Massachusetts, sono assurti a simbolo degli emarginati, dei poveri e degli sfruttati. Nondimeno, non si possono ignorare dichiarazioni e fatti rimasti piuttosto oscuri. Ma non voglio crederli colpevoli.