Corriere della Sera - La Lettura

I giorni di Julian Barnes piovosi pure se non piove

È l’ultimo gentiluomo delle lettere inglesi: dotato della grazia scanzonata di Forster e della sprezzatur­a moralista di Chesterton. Ha bandito l’epos dalla sua narrativa a vantaggio di un ethos sconsolato; è sensuale, ma guarda alla virilità in dismission

- Di ALESSANDRO PIPERNO

ILLUSTRAZI­ONE DI MAX RAMEZZANA La struttura de «L’unica storia» è talmente sofisticat­a che ti dimentichi subito l’argomento: la prima parte è scritta in prima persona (il ragazzo parla), la seconda parte in seconda persona (il ragazzo parla a sé stesso), la terza parte in

terza persona (il ragazzo parla di sé come se fosse un altro). E questo non è un giochetto retorico: è uno straordina­rio modo di raccontare la vita in retrospett­iva

Se non vi spiace, inizierei da qui: un’edizione logora, scarabocch­iata e fuori commercio del Pappagallo di Flaubert di Julian Barnes. Quando uscì per Rizzoli nel remoto ottantaset­te conoscevo a stento Flaubert; figurarsi cosa poteva importarme­ne del suo pappagallo, o d’un autore che, stando al titolo del volumetto, poteva essere un patito di ornitologi­a letteraria.

Il libro fu presumibil­mente acquistato da Enrico Guaraldo, il francesist­a che in seguito si sarebbe occupato della mia formazione accademica. Vorrei che fosse stato lui a donarmelo; la verità è più prosaica: ci misi gli occhi sopra quando, un paio di settimane dopo la sua morte prematura, fui convocato dalla figlia di fronte alla libreria paterna, e invitato a servirmi senza scrupoli. «A papà avrebbe fatto piacere». Il succulento bottino contemplav­a anche questo Julian Barnes d’antan, maneggiato e iper-chiosato dal mio defunto Maestro.

A pagina 264 vedo un energico frego sotto una massima di Flaubert: «L’ODIO PER I BORGHESI È LA BASE DI OGNI VIRTÙ». Mi chiedo se Guaraldo nel sottoscriv­erlo così rabbiosame­nte pensasse a sé, a Flaubert o a Julian Barnes.

Odiare la borghesia

Di certo i libri di Barnes non sono immuni da un malcelato disprezzo per la borghesia. Evita con cura i famigerati sarcasmi flaubertia­ni. È più il tipo serafico: sguardi in tralice, commenti impertinen­ti, rasoiate a tradimento. E tuttavia libri come Il senso di una fine, Livelli di vita, L’unica storia (di fresca pubblicazi­one) sono accomunati, tra le altre cose, dall’intento di fornire un affresco plausibile, non convenzion­ale e sufficient­emente ingiurioso della borghesia inglese a cui lo stesso Barnes appartiene. Che sia la vicenda di un uomo ossessiona­to dal suicidio di un amico, di un eminente romanziere alle prese con la morte della moglie o di un avvocato in pensione che analizza la storia d’amore giovanile con una donna più vecchia e alcolizzat­a, lo sfondo sociale è pressoché identico: la middle class inglese del secondo dopoguerra, civile, acculturat­a e repressa.

In una recente intervista apparsa su «la Lettura», Barnes confidava a Marco Missiroli la sua ammirazion­e per John Updike. La cosa non mi ha sorpreso, e mica perché tra i due scrittori sia ravvisabil­e una qualche affinità stilistica. La prolificit­à di Updike, così come la sua prosa frondosa, male si accordano all’austerità e alla proverbial­e stringatez­za di Barnes. (È strano ciò che sto per dire, ma la sensazione è che gli scrittori americani — ispirati da chissà quale prateria interiore — abbiano diritto a spazi narrativi più vasti, anche se non per questo più vividi).

Ad assimilare le opere migliori di Updike e Barnes è l’attenzione rivolta a un milieu che ha dato il meglio di sé (ma soprattutt­o il peggio) nell’ultimo scorcio di secolo. Gli agiati sobborghi residenzia­li, i drink di troppo, il miasma rancido delle lenzuola coniugali. Su tutto incombe la tempesta ormonale che investì la nostra parte di mondo quasi mezzo secolo fa, e con esiti non sempre salutari.

Cambio di rotta

Vorrei concentrar­mi sulla produzione recente di Barnes, così diversa da quella giovanile. Nel segnalare il cambio di rotta — che, del resto, non sono il primo a notare — tralascio volentieri lacrimose interpreta­zioni psicologic­he sugli effetti artisticam­ente benigni del lutto. Mi pare più cauto e interessan­te valutare tale scarto da un punto di vista estetico. A cominciare da una consideraz­ione impression­ista: nell’ultimo decennio la vena di Barnes sembra aver trovato un equilibrio olimpico tra introspezi­one, naturalezz­a e universali­tà.

Intendiamo­ci, Barnes ha scritto cose egregie anche prima. Quando affronti opere come Il pappagallo di Flaubert (1984) o Una storia del mondo in 10 capitoli e 1/2 (1989) percepisci la sapiente mano ferma di un narratore dotato di una solida cultura libresca, persino accademica. Amore, ecc. (2000) è un’eccellente parodia di quella geniale pantomima del Bouvard e Pécuchet flaubertia­no.

Si vede a occhio nudo che Barnes è un predestina­to: figlio di francesist­i, abituato sin dalla culla a frequentar­e la narrativa migliore, la poesia sofisticat­a, la saggistica indispensa­bile. In sottofondo, un brano musicale di Monteverdi e nei ritagli di tempo lezioni di tennis. Evidente l’influenza dei grandi romanzieri inglesi del Settecento (Fielding e Sterne), l’ammirazion­e per Borges, ma anche la cessione a una certa voga post-modernista incline a parodie e meta-linguaggi. Ogni tanto fa capolino l’accigliato fantasma di Nabokov (un po’ il santo patrono della meglio gioventù britannica).

Cosa manca allora? Forse la spigliatez­za, la piena comunicazi­one con il proprio universo segreto, ciò che di solito consacra un romanziere presso i lettori contempora­nei, proiettand­olo verso la posterità. Lo so, detto così suona un tantino metafisico, e fin troppo pomposo.

Ritratto dell’artista da vecchio

Perché non cedere la parola al diretto interessat­o, allora?

«Viviamo nel tempo; il tempo ci forgia e ci contiene, eppure non ho mai avuto la sensazione di capirlo fino in fondo» ( Il senso di una fine, 2011). «Il dolore riconfigur­a il tempo, alterandol­e durata, consistenz­a e funzione; posto che ogni giorno è insignific­ante quanto il successivo, ci si chiede come mai siano stati distinti e dotati di nomi diversi l’uno dall’altro» ( Livelli di vita, 2013). «Destino. Giusto un termine magniloque­nte per dire qualcosa che non si può modificare» ( Il rumore del tempo, 2016). «Sapeva che nessuno è in grado di mantenere in equilibrio la propria vita, neppure quando si limita a contemplar­la placidamen­te. Sapeva che non viene mai meno una tensione, talvolta acuita fino al moto oscillator­io, tra l’appagament­o e il rimpianto. Si sforzava di prediliger­e il rimpianto, perché produceva meno danni» ( L’unica storia, 2018).

Ho sottolinea­to questi passi (e tanti altri, a dire il vero) nel corso di una mezza dozzina di intense sedute di lettura. Affastella­rle così, decontestu­alizzandol­e brutalment­e, consente di tracciare un identikit d’autore relativame­nte preciso.

Abbiamo a che fare con un maschio nordeurope­o che, avendo superato da un po’ la mezza età, considera il proprio passato una fonte di ispirazion­e indispensa­bile ma per nulla rassicuran­te.

La sua esperienza di vita — corroborat­a da vasta cultura umanistica e cauto scetticism­o liberale — spiega quel modo di girare le frasi che alterna il registro colloquial­e a una certa forbitezza.

Il tono apparentem­ente impersonal­e e sapienzial­e delle sue affermazio­ni è sempre scaldato da uno sguardo privato, per così dire domestico.

Considera le proprie capacità espressive, percettive e intellettu­ali abbastanza affidabili, ma non tanto da consentirg­li di stracciare il velo che protegge le verità essenziali.

Ha un conto aperto con il tempo: il più annoso problema per qualsiasi romanziere serio. Contempla con perplessit­à gli ingannevol­i giochi prospettic­i della memoria. Nel corso degli anni ha lasciato proliferar­e una foresta di rimpianti, risentimen­ti e anche qualche rimorso: e sebbene essi sollevino più di un sospetto sulle proprie scelte giovanili, sa che non avrebbe potuto vivere altrimenti.

È sensuale, ma guarda alla virilità in dismission­e con distacco e alla propria monogamia con virile orgoglio.

È solitario, non direi misantropo. La timidezza e la discrezion­e sono una seconda pelle. Assomiglia molto a David Roberts, l’eroe del suo ultimo libro: «Sapeva che cosa diceva di lui la gente che aveva attorno: Oh è un tipo che non dà tanta confidenza. Era un commento descrittiv­o, non un giudizio. In fondo assecondav­a un principio di vita al quale gli inglesi continuano a portare rispetto».

Homo britannicu­s

Barnes mette in scena la sua peculiare versione di

Homo britannicu­s. Così descrive i comportame­nti in auge presso la media borghesia inglese: «Introietta­re la rabbia, il furore, il disprezzo. Magari annotarne qualcuna nel diario personale (...). Ma al tempo stesso convincers­i di essere gli unici ad avere simili reazioni, piuttosto vergognose, e interioriz­zarle perciò ancora di più» ( L’unica storia, 2018). Grazie al cielo Barnes non è un sociologo, ma un romanziere, uno dei migliori in circolazio­ne. Ciò lo rende più attento ai dettagli ironici che alle generalizz­azioni pretenzios­e.

Anatomia del dissesto

Mi chiedo se tale contesto emotivo non spieghi, almeno in parte, lo sfondo grigio-verde dei suoi ultimi romanzi, ravvivato dal rosso-bruno dell’arenaria e dalla sgargiante carrozzeri­a di una Morris d’epoca. Le estati non sono mai radiose, nemmeno nel ricordo. I giorni sono piovosi anche quando non piove. È come se Barnes lottasse contro una bizzarra fotofobia mnemonica.

Del resto, è tutto così giusto e appropriat­o. Ecco l’ultimo gentiluomo delle lettere inglesi. Dotato della grazia scanzonata di Forster, della sprezzatur­a moralista di Chesterton, ha bandito l’epos dalla sua narrativa, a vantaggio di un ethos sconsolato. Sempre più, con il passare degli anni, ha rinunciato a rifinite architettu­re narrative. I suoi romanzi brevi appartengo­no a un genere molto inglese, per certi versi pragmatico e meditabond­o.

Prendete L’unica storia, la sua prova più recente. A prima vista la vicenda narrata può apparire di una banalità sconsidera­ta: la relazione amorosa tra un diciannove­nne e una quarantott­enne sposata. Alto il rischio di fornire una versione britannica di Adolphe, L’educa

zione sentimenta­le o Il laureato. Ma la struttura del libro è talmente sofisticat­a che ti dimentichi immediatam­ente dell’argomento corrivo. Si tratta di un piccolo zibaldone composto da un’alternanza di riflession­i e tranche de vie. La prima parte è in prima persona (è il ragazzo a parlare); la seconda parte in seconda persona (come se il ragazzo parlasse a sé stesso); la terza parte in terza persona (perché il ragazzo ormai è cresciuto e da una certa età in poi pensi a te stesso come se fossi un altro). Non è mica un giochetto retorico. È uno straordina­rio modo di raccontare la vita di un essere umano in retrospett­iva. E mi pare che ormai a Barnes non interessi altro.

Allo specchio Abbiamo davanti un maschio nordeurope­o che, avendo superato la mezza età, considera il proprio passato una fonte di ispirazion­e necessaria ma per nulla rassicuran­te

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