Corriere della Sera - La Lettura
I giorni di Julian Barnes piovosi pure se non piove
È l’ultimo gentiluomo delle lettere inglesi: dotato della grazia scanzonata di Forster e della sprezzatura moralista di Chesterton. Ha bandito l’epos dalla sua narrativa a vantaggio di un ethos sconsolato; è sensuale, ma guarda alla virilità in dismission
ILLUSTRAZIONE DI MAX RAMEZZANA La struttura de «L’unica storia» è talmente sofisticata che ti dimentichi subito l’argomento: la prima parte è scritta in prima persona (il ragazzo parla), la seconda parte in seconda persona (il ragazzo parla a sé stesso), la terza parte in
terza persona (il ragazzo parla di sé come se fosse un altro). E questo non è un giochetto retorico: è uno straordinario modo di raccontare la vita in retrospettiva
Se non vi spiace, inizierei da qui: un’edizione logora, scarabocchiata e fuori commercio del Pappagallo di Flaubert di Julian Barnes. Quando uscì per Rizzoli nel remoto ottantasette conoscevo a stento Flaubert; figurarsi cosa poteva importarmene del suo pappagallo, o d’un autore che, stando al titolo del volumetto, poteva essere un patito di ornitologia letteraria.
Il libro fu presumibilmente acquistato da Enrico Guaraldo, il francesista che in seguito si sarebbe occupato della mia formazione accademica. Vorrei che fosse stato lui a donarmelo; la verità è più prosaica: ci misi gli occhi sopra quando, un paio di settimane dopo la sua morte prematura, fui convocato dalla figlia di fronte alla libreria paterna, e invitato a servirmi senza scrupoli. «A papà avrebbe fatto piacere». Il succulento bottino contemplava anche questo Julian Barnes d’antan, maneggiato e iper-chiosato dal mio defunto Maestro.
A pagina 264 vedo un energico frego sotto una massima di Flaubert: «L’ODIO PER I BORGHESI È LA BASE DI OGNI VIRTÙ». Mi chiedo se Guaraldo nel sottoscriverlo così rabbiosamente pensasse a sé, a Flaubert o a Julian Barnes.
Odiare la borghesia
Di certo i libri di Barnes non sono immuni da un malcelato disprezzo per la borghesia. Evita con cura i famigerati sarcasmi flaubertiani. È più il tipo serafico: sguardi in tralice, commenti impertinenti, rasoiate a tradimento. E tuttavia libri come Il senso di una fine, Livelli di vita, L’unica storia (di fresca pubblicazione) sono accomunati, tra le altre cose, dall’intento di fornire un affresco plausibile, non convenzionale e sufficientemente ingiurioso della borghesia inglese a cui lo stesso Barnes appartiene. Che sia la vicenda di un uomo ossessionato dal suicidio di un amico, di un eminente romanziere alle prese con la morte della moglie o di un avvocato in pensione che analizza la storia d’amore giovanile con una donna più vecchia e alcolizzata, lo sfondo sociale è pressoché identico: la middle class inglese del secondo dopoguerra, civile, acculturata e repressa.
In una recente intervista apparsa su «la Lettura», Barnes confidava a Marco Missiroli la sua ammirazione per John Updike. La cosa non mi ha sorpreso, e mica perché tra i due scrittori sia ravvisabile una qualche affinità stilistica. La prolificità di Updike, così come la sua prosa frondosa, male si accordano all’austerità e alla proverbiale stringatezza di Barnes. (È strano ciò che sto per dire, ma la sensazione è che gli scrittori americani — ispirati da chissà quale prateria interiore — abbiano diritto a spazi narrativi più vasti, anche se non per questo più vividi).
Ad assimilare le opere migliori di Updike e Barnes è l’attenzione rivolta a un milieu che ha dato il meglio di sé (ma soprattutto il peggio) nell’ultimo scorcio di secolo. Gli agiati sobborghi residenziali, i drink di troppo, il miasma rancido delle lenzuola coniugali. Su tutto incombe la tempesta ormonale che investì la nostra parte di mondo quasi mezzo secolo fa, e con esiti non sempre salutari.
Cambio di rotta
Vorrei concentrarmi sulla produzione recente di Barnes, così diversa da quella giovanile. Nel segnalare il cambio di rotta — che, del resto, non sono il primo a notare — tralascio volentieri lacrimose interpretazioni psicologiche sugli effetti artisticamente benigni del lutto. Mi pare più cauto e interessante valutare tale scarto da un punto di vista estetico. A cominciare da una considerazione impressionista: nell’ultimo decennio la vena di Barnes sembra aver trovato un equilibrio olimpico tra introspezione, naturalezza e universalità.
Intendiamoci, Barnes ha scritto cose egregie anche prima. Quando affronti opere come Il pappagallo di Flaubert (1984) o Una storia del mondo in 10 capitoli e 1/2 (1989) percepisci la sapiente mano ferma di un narratore dotato di una solida cultura libresca, persino accademica. Amore, ecc. (2000) è un’eccellente parodia di quella geniale pantomima del Bouvard e Pécuchet flaubertiano.
Si vede a occhio nudo che Barnes è un predestinato: figlio di francesisti, abituato sin dalla culla a frequentare la narrativa migliore, la poesia sofisticata, la saggistica indispensabile. In sottofondo, un brano musicale di Monteverdi e nei ritagli di tempo lezioni di tennis. Evidente l’influenza dei grandi romanzieri inglesi del Settecento (Fielding e Sterne), l’ammirazione per Borges, ma anche la cessione a una certa voga post-modernista incline a parodie e meta-linguaggi. Ogni tanto fa capolino l’accigliato fantasma di Nabokov (un po’ il santo patrono della meglio gioventù britannica).
Cosa manca allora? Forse la spigliatezza, la piena comunicazione con il proprio universo segreto, ciò che di solito consacra un romanziere presso i lettori contemporanei, proiettandolo verso la posterità. Lo so, detto così suona un tantino metafisico, e fin troppo pomposo.
Ritratto dell’artista da vecchio
Perché non cedere la parola al diretto interessato, allora?
«Viviamo nel tempo; il tempo ci forgia e ci contiene, eppure non ho mai avuto la sensazione di capirlo fino in fondo» ( Il senso di una fine, 2011). «Il dolore riconfigura il tempo, alterandole durata, consistenza e funzione; posto che ogni giorno è insignificante quanto il successivo, ci si chiede come mai siano stati distinti e dotati di nomi diversi l’uno dall’altro» ( Livelli di vita, 2013). «Destino. Giusto un termine magniloquente per dire qualcosa che non si può modificare» ( Il rumore del tempo, 2016). «Sapeva che nessuno è in grado di mantenere in equilibrio la propria vita, neppure quando si limita a contemplarla placidamente. Sapeva che non viene mai meno una tensione, talvolta acuita fino al moto oscillatorio, tra l’appagamento e il rimpianto. Si sforzava di prediligere il rimpianto, perché produceva meno danni» ( L’unica storia, 2018).
Ho sottolineato questi passi (e tanti altri, a dire il vero) nel corso di una mezza dozzina di intense sedute di lettura. Affastellarle così, decontestualizzandole brutalmente, consente di tracciare un identikit d’autore relativamente preciso.
Abbiamo a che fare con un maschio nordeuropeo che, avendo superato da un po’ la mezza età, considera il proprio passato una fonte di ispirazione indispensabile ma per nulla rassicurante.
La sua esperienza di vita — corroborata da vasta cultura umanistica e cauto scetticismo liberale — spiega quel modo di girare le frasi che alterna il registro colloquiale a una certa forbitezza.
Il tono apparentemente impersonale e sapienziale delle sue affermazioni è sempre scaldato da uno sguardo privato, per così dire domestico.
Considera le proprie capacità espressive, percettive e intellettuali abbastanza affidabili, ma non tanto da consentirgli di stracciare il velo che protegge le verità essenziali.
Ha un conto aperto con il tempo: il più annoso problema per qualsiasi romanziere serio. Contempla con perplessità gli ingannevoli giochi prospettici della memoria. Nel corso degli anni ha lasciato proliferare una foresta di rimpianti, risentimenti e anche qualche rimorso: e sebbene essi sollevino più di un sospetto sulle proprie scelte giovanili, sa che non avrebbe potuto vivere altrimenti.
È sensuale, ma guarda alla virilità in dismissione con distacco e alla propria monogamia con virile orgoglio.
È solitario, non direi misantropo. La timidezza e la discrezione sono una seconda pelle. Assomiglia molto a David Roberts, l’eroe del suo ultimo libro: «Sapeva che cosa diceva di lui la gente che aveva attorno: Oh è un tipo che non dà tanta confidenza. Era un commento descrittivo, non un giudizio. In fondo assecondava un principio di vita al quale gli inglesi continuano a portare rispetto».
Homo britannicus
Barnes mette in scena la sua peculiare versione di
Homo britannicus. Così descrive i comportamenti in auge presso la media borghesia inglese: «Introiettare la rabbia, il furore, il disprezzo. Magari annotarne qualcuna nel diario personale (...). Ma al tempo stesso convincersi di essere gli unici ad avere simili reazioni, piuttosto vergognose, e interiorizzarle perciò ancora di più» ( L’unica storia, 2018). Grazie al cielo Barnes non è un sociologo, ma un romanziere, uno dei migliori in circolazione. Ciò lo rende più attento ai dettagli ironici che alle generalizzazioni pretenziose.
Anatomia del dissesto
Mi chiedo se tale contesto emotivo non spieghi, almeno in parte, lo sfondo grigio-verde dei suoi ultimi romanzi, ravvivato dal rosso-bruno dell’arenaria e dalla sgargiante carrozzeria di una Morris d’epoca. Le estati non sono mai radiose, nemmeno nel ricordo. I giorni sono piovosi anche quando non piove. È come se Barnes lottasse contro una bizzarra fotofobia mnemonica.
Del resto, è tutto così giusto e appropriato. Ecco l’ultimo gentiluomo delle lettere inglesi. Dotato della grazia scanzonata di Forster, della sprezzatura moralista di Chesterton, ha bandito l’epos dalla sua narrativa, a vantaggio di un ethos sconsolato. Sempre più, con il passare degli anni, ha rinunciato a rifinite architetture narrative. I suoi romanzi brevi appartengono a un genere molto inglese, per certi versi pragmatico e meditabondo.
Prendete L’unica storia, la sua prova più recente. A prima vista la vicenda narrata può apparire di una banalità sconsiderata: la relazione amorosa tra un diciannovenne e una quarantottenne sposata. Alto il rischio di fornire una versione britannica di Adolphe, L’educa
zione sentimentale o Il laureato. Ma la struttura del libro è talmente sofisticata che ti dimentichi immediatamente dell’argomento corrivo. Si tratta di un piccolo zibaldone composto da un’alternanza di riflessioni e tranche de vie. La prima parte è in prima persona (è il ragazzo a parlare); la seconda parte in seconda persona (come se il ragazzo parlasse a sé stesso); la terza parte in terza persona (perché il ragazzo ormai è cresciuto e da una certa età in poi pensi a te stesso come se fossi un altro). Non è mica un giochetto retorico. È uno straordinario modo di raccontare la vita di un essere umano in retrospettiva. E mi pare che ormai a Barnes non interessi altro.
Allo specchio Abbiamo davanti un maschio nordeuropeo che, avendo superato la mezza età, considera il proprio passato una fonte di ispirazione necessaria ma per nulla rassicurante