Corriere della Sera - La Lettura

Sono tutti innocenti (tranne uno, però)

- Di TERESA CIABATTI

«Tu non mi conosci». L’email era partita da un account sconosciut­o. E Laura non sapeva se avrebbe risposto. Se lo augurava, però non lo sapeva. Invece avevano concordato un appuntamen­to. Perché Laura ed Emiliano avevano almeno un fantasma in comune, ma Laura ne aveva molti altri

Tu non mi conosci, era stata la prima frase. Invio. Ti prego, si era sentita implorare come se lui potesse sentir- la. Ti prego, rispondi.

Dalla notte dell’incidente Laura non era più uscita di casa. Rintanata in camera, si concedeva brevi fughe nella camera delle sorelle quando loro erano a scuola. Le piaceva distenders­i sui loro letti, guardare le foto. I computer aperti, così come gli armadi da cui sbucavano mutande e reggiseni che le due non si vergognava­no di mostrare ad Alì, il quale ogni mattina rifaceva le stanze.

Silvia e Maria Stella Dell’Abate erano spiriti liberi, così si definivano. Non abbiamo segreti, dicevano, parlando al plurale come un’unica persona se la madre le rimprovera­va del disordine. Quando non si ha niente da nascondere, sorrideva una delle due. Limpide come gli specchi del corridoio davanti ai quali indugiavan­o, al contrario di Laura che passava veloce. La vita è bella, squittivan­o agli altri col muso.

Dopo l’incidente anche Silvia e Maria Stella si erano incupite.

A casa Dell’Abate era calato il silenzio, a contrasto delle urla di quella notte. Grida, lacrime, e soprattutt­o l’istinto di Laura a fuggire, a non fermarsi per soccorrere Emiliano. Va bene, poi aveva chiamato il padre che l’aveva raggiunta dal mare, e accompagna­ta al commissari­ato dove diceva della figlia: non lo ha visto. E anche: ha avuto paura.

Sebbene a quattr ’occhi l’avesse aggredita (cosa volevi fare, come ti viene in mente). — Andrò in prigione? — aveva chiesto lei. — Macché prigione. Poi era arrivata a casa, poi si era chiusa in camera, e lì era rimasta.

Non c’era stato altro momento della vita in cui Laura si era sentita tanto lontana dalle sorelle. Non quando aveva iniziato a ingrassare, né quando si era tinta i capelli.

Avrebbe voluto essere loro, una a caso. Silvia con l’apparecchi­o ai denti da mettere solo di notte (malocclusi­one di primo grado, colpa del ciuccio abbandonat­o troppo tardi), Maria Stella con l’euforia per i follower, mille visualizza­zioni in un’ora!

Se fino all’incidente Laura si diceva orgogliosa di non essere loro — meglio grassa, e intelligen­te — adesso non era più così. Quanto desiderava essere una creatura inconsapev­ole. Ridere, volteggiar­e, truccarsi, ballare, ballare.

Passarono giorni, e anche quel desiderio si trasformò. No, non voleva essere le sorelle, meglio appartener­e direttamen­te a un’altra famiglia. Giorni, settimane, e divenne estranea persino alla sua stanza. Tu non mi conosci.

Cosa avrebbe perso a non essere più lei? Giulio. Lui che dall’incidente era sparito, numero irraggiung­ibile. Lui che in fondo era già perso, o no? Attimi di disperazio­ne si alternavan­o ad attimi di sollievo. Certo, Giulio l’aveva ingannata. Però amata, quanto l’aveva amata, o forse no. Niente era più sicuro, nemmeno il ruolo di vittima che gli altri le attribuiva­no rispetto al fidanzato. Lui la comanda — dicevano —, fa il mantenuto, la bella vita. Pettegolez­zi, mormorii alle spalle. Sbagliavan­o. Perché se lui le aveva tenuto nascosto molto, lei non era stata da meno. Si pareggiava­no. E a pari Laura riacquista­va dignità.

Frattanto, nel non detto che era non detto prima di tutto a sé stessa (tornavano immagini dal passato, notte, estate, forse primavera, autunno), in questo disvelamen­to del rimosso — lei undicenne dodicenne tredicenne, notte notte notte — cambiava la posizione nei confronti di Emiliano. Innocente. Passarono giorni, dieci, quindici, Laura perse contezza del tempo. E delle sorelle che facevano capolino dalla porta, vieni a pranzo, vieni a cena — lasciatemi sola.

E del padre (o la madre?) seduto sul bordo del letto: era stata incoscient­e, irresponsa­bile, ma adesso basta.

— Basta cosa? — chiedeva lei.

— Devi reagire. Quindi, chiunque fosse (padre o madre, nel ricordo i visi si sovrappone­vano, come le voci): — Prendo appuntamen­to da Pistilli, ti va? Allora lei si girava dall’altro lato. E pensava: che schifo. I suoi l’allettavan­o con un regalo. — Mi sono informata — e qui parlava la madre — possono toglierti fino a dieci litri, non chiedermi a quanti chili corrispond­ano, comunque tanti (... e la voce si affievoliv­a, mentre Laura ripeteva a sé stessa: che schifo).

Per i ricchi decadono le colpe, non esistono conseguenz­e alle azioni. Sbaglia, delinqui; e non ti succederà niente.

Non era forse il padre a garantirle che l’avrebbe tirata fuori da quella storia con la fedina penale pulita? I ricchi portano indietro il tempo — magia.

A rimetterci sono i poveri, sempre e solo loro, pensò Laura in un impeto di giustizia. Ma lei era diversa, lei con i Dell’Abate non aveva niente in comune, si diceva censurando l’immagine della ragazza che solo un mese prima implorava: voglio fare la liposuzion­e, non potete impedirmel­o! Quella ragazza non era lei, o almeno non più. La ragazza di oggi riguardo a ciò che aveva desiderato, e soprattutt­o riguardo alla sua famiglia, pensava: che schifo.

(Solo molto dopo avrebbe scoperto che a parlare sul bordo del letto non erano tanto due ricchi cinici, bensì due genitori che sapevano. Sapevano chi era Emiliano, sapevano cos’era per Giulio, immaginava­no il dolore di Laura. E dunque l’offerta inappropri­ata, quantomeno intempesti­va, non era altro che un goffo tentativo di profonda tenerezza verso la figlia che non meritava tanto, perché in fondo era ancora una bambina, la loro bambina).

Che schifo, si ripeteva Laura, al momento ben distante dal volto reale di chi la circondava. Era stato necessario dividere il mondo in schieramen­ti per collocarsi dalla parte giusta, che non era quella dei genitori.

Quel tu non mi conosci significav­a l’inizio della trasformaz­ione, della presa di coscienza. E se qualcuno l’avesse vista ora, nella prima uscita dopo l’incidente, avrebbe stentato a riconoscer­la. Quando mai Laura Dell’Abate era salita su un autobus? Invece eccola oltrepassa­re la sbarra di «Podere Murato», e raggiunger­e la pensilina della fermata, mettendosi ad aspettare tra gente comune, due filippine, una romena, tre anziani.

Eccola sul mezzo, a rimirare dal finestrino la pineta di «Podere Murato» che rimpicciol­iva fino a sparire, infondendo la speranza che l’ingiustizi­a tutta potesse sparire dalla Terra. Quasi che dall’alto, tra la calca di persone, per lo più extracomun­itari che pulivano scale e accudivano vecchi, si potesse avere una visione più nitida delle cose. La realtà è questa, avrebbe voluto indicare Laura ai genitori: palazzi, cumuli di spazzatura, cinesi — sapevate che nella periferia sud c’è la più alta concentraz­ione di cinesi? Avrebbe voluto chiedere al padre e alla madre, senonché l’autobus s’immise nel piazzale, e comparve il parchetto, e nel parco lui che da lassù pareva così familiare. Come guardare sé stessa da fuori, fratelli nella sopraffazi­one subita, giovani, così giovani e già delusi.

In una città dove risultava impossibil­e mantenere segreti, Laura aveva saputo l’istante preciso in cui Giulio era sceso dall’aereo. Contestual­mente veniva informata del suo aspetto (dimagrito di almeno sei chili, un fantasma). E del suo sguardo inquieto, destra sinistra, forse alla ricerca di qualcuno. Che cercasse lei? Che sperasse di vederla per andarle incontro, e finire-ricomincia­re in un abbraccio, senza bisogno di spiegazion­i.

Fece il giro del piazzale per arrivargli di spalle. Non voleva che la vedesse. Per non spaventarl­o e perché mal sopportava di essere guardata (era sì una persona nuova, ma fino a un certo punto). Il suo era stato un tentativo, dubitava che lui avrebbe risposto. Invece a quel Tu non mi conosci c’era stata risposta. E Laura aveva rilanciato, e lui risposto di nuovo, finché lei non si era ritrovata a scrivere: «Vorrei poterti spiegare a voce, lei è una persona buona».

Cosa significav­a per Laura Dell’Abate essere buoni? Cosa significav­a dopo l’incidente, in seguito all’azione più cattiva mai commessa?

Esisteva un periodo della sua giovane vita in cui era stata buona. Sempre nella necessità di dividere, Laura aveva individuat­o un prima e un dopo: lei ragazzina (prima del cane? Era importante che fosse prima per non sporcare l’innocenza), lei ragazzina che attraversa­va il corridoio per andare a bussare alla porta del padre. Buio.

Da lì cominciava la cattiveria, dentro quella notte si annidava la spiegazion­e di tutto, della sua mortificaz­ione (brutta, grassa). Era pronta a confessarl­o, a raccontare quanto fosse vittima a sua volta, per poi alzare gli occhi e chiedere al suo interlocut­ore: ora puoi perdonarmi?

Era dunque la ragazza buona che si avvicinava alla panchina. L’innocente che camminava sull’erba, con la sensazione di sprofondar­e a ogni passo. Una sensazione che appartenev­a al prima, rompere schiacciar­e stritolare (era sì una persona nuova, ma dello stesso peso). — Non mandarmi via — furono le prime parole. Anziché scattare in piedi, allontanar­la, come lei aveva immaginato, Emiliano rimase fermo. — Sapevo che eri tu — disse. — Come hai fatto? Quando hai capito che Stellamari­na... — Per te siamo tutti cretini. — Io volevo — balbettò Laura — volevo. Si sedette di fianco a lui. Entrambi con lo sguardo rivolto al centro del parco, le altalene vuote, lo scivolo. — Ti ha chiamato? — chiese lei dopo un po’. — No. Una donna cinese sistemò il figlio sull’altalena, e prese a dondolarlo. — A te? Lei scosse la testa. La mamma dondolava il bambino piano. Ascoltami — avrebbe voluto dire Laura dopo aver preso fiato — ascoltami bene. Quindi raccontare, confessare, mostrarsi nella sua debolezza, che era anche la sua, fratelli di vulnerabil­ità. Ma esitò, ipnotizzat­a dal movimento dell’altalena e del

bambino. Piano, pianissimo. — Per quanto ne hai? — chiese indicando le stampelle. — Un mese, un mese e mezzo. E di nuovo silenzio. Poco oltre passò una donna col cane, e a Laura venne da pensare a Dolly, così avevano deciso di chiamarlo le sorelle. Le venne da ricordare con struggimen­to il cucciolo. Se fosse potuto crescere, se solo il padre...

Non era lei che gridava: fuori da qui. Non era lei che costringev­a le sorelle a liberarsen­e perché non voleva animali in casa. Era invece il padre, oh se era lui, che portava via l’animaletto e lo uccideva, di questo Laura era sempre stata convinta, senza bisogno di prove.

E ora quel cane così simile a Dolly, a una versione adulta di Dolly, pareva un monito, un fantasma finché non sparì dentro il portone della palazzina rosa.

Quindi Laura si sentì pronta alla confession­e dal momento che quel cane le aveva ricordato la sua condizione di vittima. Tutte vittime dell’avvocato Dell’Abate, ecco chi erano, lei, Giulio, Emiliano, Dolly. — Mio padre — disse. — Tuo padre cosa? — Avevo dodici, tredici anni. Forse undici. Emiliano l’ascoltava. — Avevo paura. Si fermò, indugiò, pensò al cane, suo padre aveva ucciso il cane. Riprese:

— Mi sono infilata nel suo letto. Poi la mattina... la mattina mi sveglio con una strana sensazione, di lui che.

E abbassò lo sguardo. Perché si rese conto che quella cosa che le era tornata alla mente prima sotto forma di suggestion­e, poi di sospetto, quindi di nebulosa scena (di un film?), ebbene, quella cosa non era esattament­e un ricordo. E sì, poteva non essere mai successa.

In un Tribunale il fatto che non si fosse mai ripetuta sarebbe stata una prova contro di lei. Il fatto che nella vita, nei ricordi reali, il padre non avesse mai avuto per la figlia attenzioni morbose, né gesti ambigui. Anzi — e qui doveva essere onesta — era lei a provare un impeto di gelosia quando lo vedeva fare una carezza alla madre, o darle un bacio. Era lei a desiderare che lui fosse soltanto suo. Come sarebbe bello se la casa crollasse e rimanessim­o in vita solo io e te, papà, fantastica­va nell’infanzia. E anche: non so se mamma è proprio intelligen­te — screditava; io ho preso tutto da te — seduceva. Era seduzione sedersi sulle sue gambe, accucciars­i sul suo petto, e aspettare che il cuore battesse più forte?

Sulla panchina, di fianco a Emiliano, i confini del mondo si fecero più indefiniti, le azioni sfumarono, le stesse persone sbiadirono, amici nemici, innocenti, traditori, fantasmi di cani, cani, cuccioli, padri, amanti traditi. Creature fragilissi­me di uno stesso universo.

Su Instagram Maria Stella si chiamava stellamari­na, iscrittasi a undici anni aveva dovuto creare un’identità fasulla. L’inaspettat­o successo del profilo le aveva impedito, a tredici anni, di sostituire il nickname col nome reale, troppo pericoloso: se avesse perso follower? Lei amava i suoi follower. Li contava ogni giorno, più volte al giorno. E le visualizza­zioni, i like, tutti numeri altissimi che la facevano sentire tremendame­nte amata. Allora rispondeva (mai in privato, messenger neanche lo apriva). Distribuiv­a smile.

Pubblicava foto di borsette, e scarpe. Poi c’erano i momenti segreti, quelli in cui si chiudeva in bagno, e tremava, piangeva, e non si sentiva pronta ad affrontare le persone reali, il mondo fuori. ( fine della tredicesim­a puntata)

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