Corriere della Sera - La Lettura
Il declino delle potenze occidentali
Paura. Non è soltanto il titolo del libro su Donald Trump di Bob Woodward, che sta per uscire in Italia da Solferino; è anche lo stato d’animo sempre più diffuso tra gli elettori dei Paesi che, un tempo, venivano chiamati «ricchi».
Il mese scorso, in occasione del decimo anniversario del fallimento della Lehman Brothers, simbolo del collasso finanziario del 2008, si è discusso tra l’altro del ruolo di quella crisi nello stimolare l’ondata «populista» negli Stati Uniti e in molti Paesi europei. Il «Financial Times» ha ospitato due tribune opposte: sì, il «populismo» è nato da quella crisi, perché una parte della popolazione dei Paesi più colpiti ne ha pagato da sola le conseguenze; no, è nato prima, fin dall’ondata di sfiducia verso la politica generata dalla guerra in Vietnam (almeno per l’America). Qui proponiamo una terza ipotesi, solo apparentemente mediana: la tendenza al populismo è nata prima (e non solo in America), poi l’impatto della crisi del 2008 l’ha fatta emergere e l’ha generalizzata.
Ma prima di tutto bisogna intendersi sull’argomento di cui stiamo parlando; non per proporre l’ennesima definizione di «populismo», ma per evitare equivoci. L’elemento comune a tutti i cosiddetti populismi è di proporre soluzioni apparentemente facili a problemi complessi di natura epocale. Che la politica prometta spesso più di quanto non possa mantenere non è una novità: il presidente francese Jacques Chirac, più onesto (e più spiritoso) di tanti altri, soleva dire che «le promesse elettorali impegnano solo chi ci crede». Il populismo rappresenta però un salto quantitativo, una falcata talmente ampia che la quantità finisce per trasformare la qualità (come la quantità di calore, a una certa soglia critica, trasforma l’acqua in vapore): non solo promette ciò che non può mantenere, ma promette qualunque cosa sembri piacere agli elettori, senza preoccuparsi di come fare a mantenere. Il populismo dichiara che i vincoli della realtà devono essere abbattuti, e lo fa con la stessa spavalderia (ma con più fortuna elettorale) di quei sessantottini che esigevano «l’impossibile».
Il vincolo della realtà che i populisti odierni e i loro elettori vorrebbero abbattere è essenzialmente questo: che il mondo sta cambiando. Il populismo prospera innanzitutto nei Paesi che, negli ultimi quattro secoli, hanno dominato incontrastati il mondo; l’ascesa di nuovi competitori internazionali esige di spartire il potere e la ricchezza di cui, nel passato, le «vecchie» potenze (Stati Uniti, Europa e Giappone, essenzialmente) avevano il monopolio. «La pacchia è finita», come si suol dire, o comunque la crisi del 2008 fa temere che possa finire tra breve. La globalizzazione è finita sul banco degli imputati non tanto perché ha allargato il fossato tra i più ricchi e i più poveri, ma perché ha ristretto il fossato tra i Paesi «ricchi» e i Paesi «poveri». Nell’immaginario collettivo, l’ascesa di nuove potenze si trasforma nello spettro di milioni di «poveri» che, invece di starsene dove la natura (o la provvidenza) li ha messi, hanno maturato l’assurda pretesa di diventare «ricchi».
Se le ansie sono il prodotto del mondo che cambia, la soluzione populista consiste nel fermare i cambiamenti. Meglio ancora: tornare indietro. Questo spiega, anche, lessicalmente, l’ossessione per espressioni che rimandano al passato: «Rendiamo l’America di nuovo grande» o «vogliamo indietro il nostro Paese». È tutto un appello affinché ci venga restituito il passato, la presunta età dell’oro che è alle nostre spalle. Come ha scritto sul «Corriere» Antonio Polito, «abbiamo smesso di credere nel progresso»; e come ha chiosato Carlo Bordoni sempre su queste pagine, «in assenza di un futuro in cui credere, l’idea di progresso diventa insostenibile». Tutto ciò che è nuovo — una linea ferroviaria, una variante autostradale, un gasdotto, una modifica costituzionale — è rigettato; camminando all’indietro si incontra non solo la «decrescita felice», ma anche i bei tempi in cui la poliomielite, il morbillo e la meningite compivano indisturbati la loro opera di selezione darwiniana. Torna anche, inevitabilmente, la nostalgia di un capro espiatorio su cui scaricare la colpa delle crisi e delle epidemie che accompagne- ranno la «decrescita felice»; nel Medioevo erano gli ebrei, domani saranno gli immigrati, meglio se musulmani, che si può anche accusare di dolo.
La patria del populismo sono gli Stati Uniti. La rapidità con cui gli americani si sono arricchiti ha periodicamente generato un’ansia legata alla paura di perdere ciò che si era appena conquistato. Fin dalla metà dell’Ottocento, i cosiddetti «nativisti» convogliarono le loro angosce contro gli immigrati irlandesi (i quali avevano invece contribuito a creare quella ricchezza che i «nativi» temevano di perdere); dopo la crisi del 1893, anche molti irlandesi ormai integrati si associarono alle campagne del neonato Partito populista contro le banche, le ferrovie, le concentrazioni industriali, i «poteri forti» della East Coast e, naturalmente, gli immigrati recenti — italiani, polacchi, cinesi — giudicati selvaggi e inassimilabili.
Dopo la Seconda guerra mondiale, milioni di «colletti blu» — seconde e terze generazioni di immigrati che avevano arricchito l’America e anche, un po’, se stessi — divennero la mitica classe media suburbana, quella delle casette a schiera con giardino e garage. Anche loro, mentre godevano di tutti i benefici dell’American way of life, nutrivano un permanente sentimento d’ansia. In uno dei testi più celebri su quell’epoca — I persuasori occulti di Vance Packard (1957) — c’è una descrizione della psicologia dominante nella nuova stratificazione sociale: «Timida verso il mondo esterno… non avverte bisogno di originalità… tende a vedere tutto ciò che è esterno al suo piccolo mondo come pericoloso e minaccioso… la sua vita emotiva è estremamente limitata… la sicurezza sono le mura di casa». Non c’era, all’epoca, nessun’altra giustificazione a quelle ansie se non la paura di poter perdere il benessere appena conquistato.
In che misura l’ansia possa tradursi in svolta politica dipende, beninteso, dal contesto. Negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, quel ceto emergente fu all’origine del ritorno in sella dei repubblicani per la prima volta dopo la catastrofe del 1929. Una svolta, certo, ma una piccola svolta, tutto sommato. Più uno sconquasso che una svolta, invece, nell’Italia degli anni Novanta: dopo aver raggiunto, nel decennio precedente, un livello di benessere mai conosciuto prima, si prospettò agli italiani la necessità di invertire la tendenza alla spesa pubblica facile per poter accedere al club dell’euro; il desiderio di agganciarsi all’avventura europea (all’epoca dinamica e promettente) senza però pagare dazio si tradusse nella sconfessione di massa dei partiti che avevano portato l’Italia fino lì, e nella subitanea ascesa elettorale di chi prometteva, con rassicurante accento meneghino, «un nuovo miracolo italiano».
La «grande paura» del 2008 ha generalizzato quell’inquietudine: non sono i «perdenti della globalizzazione», come si dice, a votare per i populisti (nelle elezioni americane del 2016, il 78% degli elettori a reddito più basso si è astenuto), ma coloro che temono di perdere qualcosa. Per ora, non hanno perso niente, o quasi: le statistiche dicono che, in media, europei, americani e giapponesi sono più ricchi oggi di quanto non lo fossero all’inizio del secolo. Ma lo sono anche perché i loro Paesi hanno continuato a spendere come quando dominavano il mondo, e potevano permettersi di far pagare ad altri la bolletta della propria opulenza. In un libro del 2010, gli economisti Stephen Cohen e Brad DeLong hanno osservato che «quando i soldi finiscono», una grande potenza può fare affidamento «per un certo tempo» sulla collocazione internazionale del suo debito per garantire ai propri cittadini un livello di vita elevato; nondimeno, «la fine è inevitabile: bisogna diventare, riconoscere di essere diventati, e agire come, un Paese normale. Per l’America, sarà uno shock».
L’onda d’urto di quello shock si sta allargando. I giovani candidati «democratici socialisti» americani «esigono l’impossibile», come i loro nonni sessantottini, e promettono prosperità e felicità per tutti: anche loro, in fondo, pensano che l’America possa tornare ad essere grande, cioè a un passato che non c’è più. «Il vero potere — ha detto Donald Trump — nasce dalla paura». I suoi avversari confidano sul bisogno degli elettori di credere ai miracoli. Ma ai miracoli, appunto, credono proprio quelli che hanno paura.
L’ascesa dei populismi di destra e di sinistra è un sintomo delle difficoltà di Paesi che stanno perdendo il primato e si rifugiano nella nostalgia per la loro passata grandezza