Corriere della Sera - La Lettura
Un romanzo funziona solo a voce alta
fa irrompere il caso nella vita di una vedova risposata: le dicono che la nipotina è in difficoltà mentre lei sa bene di non avere alcun nipote. Parte dalle conseguenze di quest’equivoco l’autrice americana che a «la Lettura» confida: «Sono sempre stata molto affascinata dall’idea delle famiglie allargate. Persone che riuniscono altre persone senza legami». Come riesce a raccontarlo? Con un metodo di lavoro che affianca scrittura a mano e scrittura al computer. E uno stratagemma
«La telefonata arrivò un martedì pomeriggio di metà luglio. Willa stava riordinando le sue fasce per capelli. Le aveva messe tutte sul letto, suddivise per colore, e ora le lisciava con le dita e le allineava negli scomparti di una scatola rivestita in stoffa che aveva comprato apposta. Poi a un tratto, «drin! ». Drin, e la vita di Willa Drake prende una piega diversa, inaspettata. Drin, e Anne Tyler racconta. Dall’altra parte del filo c’è Callie, una sconosciuta, che da Baltimora informa Willa che hanno sparato a una gamba a Denise, sua nuora, e ora Cheryl, 9 anni, sua nipote, è sola e ha bisogno di aiuto. Ma Willa — vedova benestante, da poco trasferitasi con il secondo marito in un complesso per golfisti di Tucson, Arizona — non ha nuore né nipoti: Denise è solo un vecchio amore di suo figlio Sean, un nome, un ricordo lontano.
Parte da qui l’equivoco al centro di un nuovo romanzo, La danza dell’orologio, in uscita per Guanda il 18 ottobre: il ventiduesimo, per Anne Tyler, autrice inarrestabile, premiata con un Pulitzer, amata dal cinema e dai lettori. Che qui ritroveranno (o troveranno) tutti i suoi ingredienti: l’America, Baltimora (dove Tyler vive da più di cinquant’anni), le gioie e i dolori di ogni vita. E la famiglia: quella del sangue e quella che si sceglie, mettendo insieme pezzi di esistenze diverse unite dal caso — qui da una telefonata fatta per errore — che poi, però, può diventare scelta. Seguendo la vita di Willa — prima bambina figlia di una madre difficile, poi sorella, moglie, vedova infine «nonna per caso» — il romanzo procede per decenni, dal 1967 al 2017. Ma com’è secondo Anne Tyler — che da tempo si tiene a distanza dalle interviste e preferisce rispondere per email, come fa con «la Lettura» — l’America di oggi rispetto a quella in cui Willa Drake era bambina e lei esordiva come scrittrice? «È così radicalmente diversa da quella degli anni Sessanta che, per esempio, non mi azzarderei mai a scrivere dal punto di vista di una adolescente dei nostri giorni. Non sarei in grado di immaginare e di raccontare come possa essere la sua vita».
All’inizio del romanzo, nel 1967, vediamo una famiglia tradizionale (madre, padre e due figlie) che, però, nasconde al suo interno conflitti profondi. Alla fine sembra delinearsi un nuovo tipo di nucleo familiare, all’apparenza più irregolare, basato su legami diversi ma altrettanto forti. Vede in questi nuovi legami una speranza per la nostra società?
«Non saprei rispondere a proposito della società in generale ma sono sempre stata molto affascinata dall’idea delle famiglie allargate e in qualche modo improvvisate: persone che danno forma a una versione originale di famiglia riunendo attorno a sé altre persone di provenienza diversa, che non hanno un legame tra loro, come fa Willa ne La danza dell’orologio ».
Lei è cresciuta in una comunità quacchera, in North Carolina, e i suoi genitori erano attivisti per i diritti civili. C’è ancora spazio oggi per le battaglie di allora?
«Credo che un po’ di strada sia stata fatta. La segregazione razziale è una cosa che appartiene al passato, la guerra del Vietnam è finita. D’altra parte, però, i neri americani sono tuttora vittime di pregiudizio, e adesso abbiamo conflitti aperti in Iraq e in Afghanistan».
C’è questa frase nel romanzo: «Erano i suoni a riportare in vita il passato». Quali sono i suoni che hanno attraversato la sua vita?
«Alcune melodie che hanno accompagnato la mia vita sono quelle che ho “regalato” a Willa: come la canzone Down to the Valley, che cantava mia madre, e la canzoncina dello spot televisivo di un rimedio contro l’artrite che per qualche motivo mi risuona ancora nella testa. Mi affascina anche il potere che hanno gli odori, come il profumo di una marca economica di rossetto, si chiama Tangee, che riesce a riportarmi immediatamente ai miei quindici anni».
Anche ne «La danza dell’orologio», come in altri suoi romanzi, c’è Baltimora. Che cosa rappresenta per lei questa città?
«È una città caratterizzata da una così forte consapevolezza di sé, da una personalità così caparbia e determinata che la considero un personaggio a pieno diritto. Spesso mi chiedo come cambierebbero i miei libri se ne ambientassi le vicende in un posto differente».
L’hanno accusata di essere troppo sentimentale e romantica quando scrive. Eppure nei suoi romanzi — anche in questo — i protagonisti affrontano prove difficili come la morte di una persona cara.
«Credo che, a volte, la vita reale sia ricca di emozioni e di romanticismo. E se da una parte spero di non scrivere mai una scena sentimentale in una maniera poco realistica dall’altra sono convinta che anche i momenti più difficili spesso abbiano in sé qualche dettaglio commovente o comico».
In passato ha raccontato qual è il suo metodo di lavoro: scrive a mano, finisce il romanzo e lo batte al computer, lo ricopia ancora a mano e lo registra «per ascoltare se funziona e correggerlo», poi batte al computer la versione finale. In che modo i vari passaggi cambiano la stesura?
«Sono i dialoghi la parte che per me è più utile rileggere a voce alta. Talvolta il commento di un personaggio, che sulla carta sembrava assolutamente appropriato, suona falso quando lo leggo ad alta voce. Ho imparato a fare sempre quest’ultimo passaggio prima di considerare terminato il mio lavoro su un libro».
Quali sono — se ci sono — gli scrittori del passato che hanno influenzato di più la sua scrittura?
«Da ragazzina sono stata molto influenzata dai racconti di Eudora Welty. È stata lei la scrittrice che mi ha fatto scoprire che la gente comune del Sud degli Stati Uniti, dove io stavo crescendo, poteva essere un soggetto interessante per la letteratura».
E invece, tra gli scrittori di oggi, chi le sembra possa interpretare meglio la voce dell’America moderna?
«Credo che non esista un’unica voce dell’America ma che esistano molte voci, catturate in maniera brillante da scrittori differenti. Come esempi di queste voci posso citare tre romanzi recenti: The Mars Room di Rachel Kushner, la voce delle donne in prigione; Long Way Down di Jason Reynolds, le voci dei ragazzi coinvolti in una guerra tra gang; e A Place for Us di Fatima Farheen Mirza, le voci dei membri di una famiglia di immigrati indiani in California».
Nel 2012, in un’intervista, diceva di non aver mai provato i social network: è ancora così?
«Sì, confermo che non utilizzo i social network, e più leggo i giornali in questo periodo, più sono felice della mia scelta».