Corriere della Sera - La Lettura
Via il diavolo dal violino di Paganini
Genova rende omaggio al virtuoso, sottolineando le affinità con una rockstar come Jimi Hendrix. Ma avverte Salvatore Accardo: «Era un grande artista che incantò Schubert e Schumann»
«Aveva qualcosa di spettrale e di fantastico, onde la sua sola apparizione alla ribalta destava nel pubblico un’impressione profonda. Le basette erranti sulle scarne sue guance, il colorito cadaverico (...), il lampeggiar degli occhi infocati... Tutti questi elementi rendevano la sua figura così strana e bizzarra che la fantasia popolare non si peritò (...) dal considerarla addirittura quasi un’incarnazione diabolica». Con qualche aggiustamento, il personaggio potrebbe essere Marilyn Manson, Alice Cooper, qualche compiaciuta rockband dei nostri giorni. Si tratta invece di Niccolò Paganini, secondo le parole del suo biografo Arnaldo Bonaventura, nel 1915 ancora perfettamente in linea con la storia della ricezione paganiniana, le testimonianze coeve e il loro perdurare nell’immaginario.
È questo il punto focale della mostra multimediale in arrivo al Palazzo Ducale di Genova, Paganini Rockstar, che prolunga la verità storica, con ricchezza di preziosa documentazione, nel mito e, a sorpresa, fino ai nostri giorni. La domanda è: chi rappresenta oggi l’eredità di Paganini? Solo in parte, potremmo dire, i grandi violinisti classici: che, da Heifetz a Oistrakh, da Zino Francescatti a Salvatore Accardo, restituiscono la bellezza, il prodigio, la genialità di questa musica, non certo l’aura sinistra che ha circondato il compositore. Essenziale, invece, nel perdurare del mito-Paganini. Ancor oggi vivissimo. Nelle forme di una particolare «tassonomia» del virtuoso romantico, come l’ha analizzata Claudio Proietti nel catalogo, definendone ruolo e immagine: l’incantatore delle folle, il superuomo dal talento irriducibile alle categorie dell’usuale, il talento rivoluzionario che travalica la tecnica dei suoi tempi, in forza di qualità segrete o di poteri occulti, suscitando insieme sensazione, adorazione e sospetto.
Sarebbe questo il terreno comune tra Paganini e i divi rock. La mostra ne sceglie uno, emblematico: Jimi Hendrix. Simili il virtuosismo trascendentale, l’attrazione sul pubblico, perfino la sensualità del rapporto «fisico» con lo strumento: «Ogni concorrente al “Concorso Paganini” sogna di tenere in mano il violino Cannone di Paganini, proprio come ogni aspirante rocker sbava per la “Black Beau- ty” di Hendrix», scrive Maiko Kawabata. «Jimi — annota Ivano Fossati — fa a pezzi le chitarre, si veste come uno sciamano, si lascia incorniciare da orientalismi e segni grafici di psichedelia molto alla moda, assume atteggiamenti che incantano e stregano il pubblico, come due secoli prima Paganini». E anche lui «suona come non si è mai sentito prima».
«Parlare di virtuosismo, a proposito di Paganini, può essere limitativo», dichiara però a «la Lettura» Salvatore Accardo. «Paganini ha apportato alla tecnica violinistica qualcosa di straordinario e di inimmaginabile per l’epoca. Ma per interpretarlo, la tecnica va intesa come mezzo per fare musica, non come un fine. Oistrakh diceva: “Bisogna possedere la tecnica per dimenticarla”. I detrattori e i colleghi di Paganini hanno inventato tante storie, sul suo essere posseduto dal demonio. Mentre era solo più bravo degli altri. Non pensiamo solo al Paganini virtuoso: pensiamo al grande musicista che, ammirato da Schumann, suonava la parte della viola nella Sinfonia concertante di Mozart; e, con gli amici, come Hausmusik, i Quartetti di Beethoven. Sì, era considerato alla stregua di quelle che oggi consideriamo le stelle del rock ma non dimentichiamo che un compositore come Schubert, dopo aver assistito a un suo concerto, disse di aver ascoltato “un angelo”».
Angelo o demone? La pletora delle leggende che ben conosciamo, Paganini che impara a suonare in carcere, istruito da Satana, Paganini che usa un violino con le corde tratte dall’intestino della donna da lui assassinata, si confronta a Genova con il pregio insieme musicologico e antropologico dell’esposizione. Si ammirano, fin dalle prime sale, gli autografi di opere come Le Streghe o il fatidico Capriccio n. 24, sfida per i violinisti non meno che (poi) per i pianisti, se pensiamo alle temibili riletture-amplificazioni di Brahms (le Variazioni op. 35) e di Rachmaninov (la Rapsodia op. 43): pur esse in mostra, insieme a pagine di Schumann ( Studien nach Capricen von Paganini), Liszt (la famosa Campanella ovvero la Grande Fantaisie de bravoure sur la Clochette de Paganini), su su fino a Lutoslawski, Boris Blacher, Alfredo Casella, Luigi Dallapiccola ( Sonatina canonica sui Capricci di Paganini) e Azio Corghi ( Animi motus), prestiti dalla Österreichische Nationalbibliothek, dal Conservatorio di Milano e dall’Archivio Ricordi.
Perché, come ha scritto Raffaele Mellace, Paganini è un «crocevia di musiche», che da lui dipartono e che a lui afferiscono: popolari, come le Alessandrine o La Carmagnola, soggetto di sue Variazioni; arie d’opera (da Weigl al celebre Rossini del Mosè); temi «nazionali» come la Mazurka di Elsner variata nella Suonata Varsavia, le variazioni sull’inno prussiano che ai tempi aveva la stessa melodia di God save the King, l’inno imperiale austriaco divenuto Maestosa sonata sentimentale, e così via, seguendo l’attenta compilazione di Mellace.
In mostra, ecco poi la chitarra di Paganini, una Gennaro Fabbricatore del 1826; il suo violino, il Cannone, un Bartolomeo Giuseppe Guarnieri del 1743, vis à vis con un frammento di chitarra di Jimi Hendrix. In arrivo dalla Library of Congress di Washington, il Libro Mastro, su cui il compositore annota spese e introiti (esempio: nel 1829, con 72 concerti in 28 città, Paganini guadagna circa 54 mila talleri, circa un milione di euro attuali). E l’Agenda Rossa, il taccuino di viaggio che raccoglie invece spunti di lettura e indirizzi utili all’estero (a Parigi, il miglior dentista-chirurgo...), sonetti dell’amico Guglielmo Germi, Lalla Rookh di Thomas Moore (per esercitarsi in inglese?), referenze di banchieri, mecenati, artisti (sotto Varsavia è indicato «M. Chopin, giovine Pianista»), perfino le prove di scrittura del suo bambino, Achille. Aspetti anche toccanti della vita quotidiana e dell’umanità di un genio che, tra successi ed eccessi, va solo collocato, umanamente e stilisticamente, nella sua compiuta prospettiva storica e sovrastorica. «In questo — conclude Accardo — ricordo una meravigliosa frase di Riccardo Muti. Suonavo con lui il Concerto n. 1 di Paganini a Filadelfia. Lui disse all’orchestra: attenzione, questa musica sembra scritta da Verdi ma va suonata come fosse Mozart».