Corriere della Sera - La Lettura

Matite all’Inferno come supereroi

- Di ENRICO PAROLA

Gabriele Dell’Otto disegna per la Marvel e DC Comics e usando quello stile ha illustrato la prima cantica della «Commedia»: «Guardo l’aldilà con gli occhi di Dante»

«Non amavo la Divina Commedia, avevo imparato alle superiori i cantiche conoscono tutti, ma poi il mio mondo era quello dei fumetti». Qui che Gabriele Dell’Otto era salito in Paradiso: è uno degli otto illustrato­ri nel mondo che firmano le copertine per Marvel America, un idolo per gli appassiona­ti dei vari X-Men e Spiderman. Ora però sta per uscire una nuova edizione dell’Inferno che ha illustrato canto per canto per Mondadori, con una prefazione di Alessandro D’Avenia. «Un progetto nato per caso. Mia moglie — svela Dell’Otto a “la Lettura” — mi aveva fatto vedere una conferenza di un certo Franco Nembrini: abbiamo tre figli, mi colpì per come parlava di educazione. Un mese dopo Nembrini è a Roma per tenere delle lezioni sulla Commedia. Ci vado, primo canto, e mi trovo immerso nella selva oscura: Franco ha un modo di raccontare che mi fa immedesima­re, agli occhi della fantasia mi appare nitida la selva. Alla fine mi presento e gli dico che mi piacerebbe fargli qualche disegno ispirato alla Commedia. Non sa chi sono e mi guarda diffidente». Dubbi già dissipati con le prime chiacchier­ate. «Lui raccontava e io gli illustravo le immagini che i canti mi ispiravano. Mi stupiva come lui mi spiegasse le mie visioni, era come se le capisse meglio di me, spingendom­i a renderle ancora più “vere” rispetto ai versi».

«Verità» che si è declinata nella scelta «di far vedere quello che vede Dante, non ciò che raccontano i personaggi. Il poeta vede la fiamma dal duplice corno in cui sono chiuse le anime di Ulisse e Diomede e la mia tela mostra quello, non il folle volo di Ulisse con i suoi compagni; mostro Paolo e Francesca abbracciat­i in un amplesso, non il bacio furtivo durante la lettura dei casi di Tristano e Isotta. Questo perché Dante sono io, ciò che vive nell’aldilà lo ritrovo nella mia esperienza». Gliel’ha fatto capire Nembrini: «Mi parlava dei suoi dialoghi con Roberto Benigni sul Canto Ve della sua personale ipotesi sul perché alla fine Dante svenga: non già per la pietà verso i due sfortunati amanti, ma perché capisce che lui sta rischiando di commettere lo stesso errore; Dante sviene pensando a sé. Mi ha fatto pensare a quando io sbaglio e da lì ho iniziato a confrontar­mi con Dante, a prendere le mie esperienze e paragonarl­e con le sue. Per questo ho voluto illustrare quello che vedono i suoi occhi, perché sono come i miei occhi, potrei essere io lì».

Il cammino verso l’abisso non è stato facile: «Più si scende, più i dannati perdono umanità, ci sono un elemento animalesco e una rigidezza crescenti che inconsciam­ente ti bloccano, rendono più difficile la stesura». Quanto a un paragone tra Dante e i supereroi, «non ho mai pensato a questo lavoro come a un confronto tra un argomento “alto” e uno più prosastico. Disegnare Dante non è stata una sfida ma un voler servire una bellezza che ho incontrato e che mi ha colpito nel profondo». E che gli ha fatto vedere con occhi nuovi i «suoi» supereroi: «È diventata più urgente la volontà di evidenziar­e il valore educativo delle storie che illustro; sono convinto che questi supereroi possano insegnare molto, non solo far divertire con storie appassiona­nti».

Se il racconto in chiave retrospett­iva sembra volere allontanar­e l’orizzonte di riflession­e, la morale in realtà è un topos comune tanto ai miti mediterran­ei quanto alle saghe scandinave: l’eroe, poco importa se di nobili origini o senza nome, che riesce ad affermarsi grazie al proprio coraggio e alla tenacia nel superare gli ostacoli. Jérémie, perché ha optato per una trama con un così alto livello di tensione narrativa?

«Una buona storia deve contenere una buona dose di conflitto: è una regola base per scrivere la sceneggiat­ura. Mi piace costruire intrecci che mettono il protagonis­ta di fronte a una serie di problemi. Preferisco i periodi storici un po’ lontani da noi che mi consentono di mantenere una certa distanza: non sono in particolar­e sintonia con l’attualità». Come descrivere­bbe Grimr?

«Volevo raccontare le gesta eroiche di un personaggi­o per salvare un villaggio da una colata lavica». Perché proprio l’Islanda?

«La scelta del luogo è avvenuta in un momento successivo, quando sono venuto a conoscenza della grande eruzione di Laki nel 1783 e dopo aver letto il romanzo di Halldór Laxness La campana d’Islanda (nel 1955 lo scrittore fu insignito del Premio Nobel per la Letteratur­a, ndr). Come ho già detto, cerco storie con il massimo del conflitto, così ho creato la figura di un orfano in un Paese in cui per potersi definire un uomo bisognava poter contare sul proprio albero genealogic­o. Poi, certo, l’Islanda è sublime e la bellezza del paesaggio ha impresso all’album un nuovo volto». Quali valori rappresent­a il protagonis­ta e chi potrebbe essere oggi il suo alter ego?

«Grimr incarna perseveran­za, abnegazion­e, passione contro tutto e tutti. È un personaggi­o la cui identità viene negata fin dall’infanzia e che si batte per affermare sé stesso attraverso le sue azioni, malgrado le resistenze che incontra. Non mi viene in mente nessuno tra i contempora­nei che corrispond­a a questa descrizion­e, ma nel campo artistico potrei citare il postino Ferdinand Cheval (dedito per più di 30 anni alla costruzion­e del Palazzo ideale di Hauterives, straordina­rio esempio di architettu­ra naïf, ndr) o Vincent van Gogh. Forse si potrebbe paragonare Grimr agli eroi che hanno lottato per le minoranze come Harvey Milk (militante del movimento di liberazion­e omosessual­e, ndr) o Martin Luther King. La differenza è che la saga di Grimr non è collettiva ma individual­e. Tra le nuove generazion­i penso ai transgende­r, che devono sostenere una lunga battaglia per affermare la loro identità... A loro auguro una vita un po’ più felice del mio personaggi­o». Come pensa che il fumetto possa stimolare a riflettere con uno sguardo più critico sulla realtà?

«Entriamo in consideraz­ioni che vanno un po’ oltre... Preferirei non addentrarm­i in generalizz­azioni, temo che non porterebbe­ro da nessuna parte. Amo i grandi eroi letterari purché non trasmettan­o valori troppo netti o evidenti... Come Don Chisciotte, per esempio. Per quanto mi riguarda, cerco di scrivere storie accattivan­ti per il lettore, tralascian­do le mie piccole idee sul mondo, nella speranza che possano interessar­lo, sorprender­lo, emozionarl­o». L’Italia potrebbe essere lo scenario di una sua possibile storia?

«Ahah, non saprei, dovrei rifletterc­i... Perché no, potrebbe essere una storia con il vulcano Stromboli, ho adorato il film di Roberto Rossellini. Il cinema italiano è stato per me grande fonte di ispirazion­e, uno dei miei film preferiti è Le notti di Cabiria di Federico Fellini. Tra i registi contempora­nei mi piace molto Paolo Sorrentino. Dall’antica Roma al neorealism­o, fino ai ricchi decadenti della Grande bellezza troverei di sicuro materiale per scrivere una sceneggiat­ura. Ecco, provo a buttarla lì: nel dopoguerra un vecchio rimasto senza una lira è sul punto di suicidarsi tra le rovine di una periferia di Roma quando sente il pianto di un bambino abbandonat­o...». Come si combinano parole e immagini nei suoi lavori?

«L’intera questione del fumetto ruota intorno al rapporto tra parole e immagini. Alcuni pensano che la nona arte sia una specie di succedaneo, inferiore sia alla letteratur­a sia alla pittura, ma molti autori hanno dimostrato la loro forza. Dal mio punto di vista, invece, apre immense possibilit­à dato che è ancora giovane rispetto ad altre forme di espression­e... I fumettisti hanno giorni luminosi davanti a sé. Tornando a me, uso il testo e l’immagine in funzione delle esigenze narrative, non voglio che si sovrappong­ano nel significat­o, come succedeva nei fumetti di una volta o quando le parole ricalcano esattament­e quello che si vede nel disegno, tipo: “E là l’uomo mascherato aprirà la porta”. Non ho problemi a lasciare ampi passaggi privi di testo, ma non riuscirei a eliminarlo del tutto perché adoro i dialoghi». Da dove nasce la sua passione per il fumetto?

«Ho iniziato con i concorsi. Quando avevo otto anni mio fratello partecipav­a alle gare scolastich­e ad Angoulême. Come avviene spesso, i fratelli maggiori sono visti come una specie di divinità, così ho voluto imitarlo e da allora non ho più smesso. Ho letto un po’ tutti i classici franco-belgi, in particolar­e quelli di André Franquin ( Le idées noir, Gaston, Spirou...) e i primi manga arrivati in Francia, soprattutt­o Dragon Ball». A quali altri progetti sta lavorando?

«Abbiamo in cantiere un film per l’infanzia con la mia compagna Lucrèce Andreae: il suo cortometra­ggio d’animazione, Pépé le Morse, ha fatto il giro del mondo e ricevuto numerosi premi».

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