Corriere della Sera - La Lettura

Tutta la vita di una cicatrice

- Di ELISABETTA ROSASPINA

«I segni del corpo e dell’anima sono la mappa della nostra esistenza» Così ragazzi feriti e resilienti reinventan­o il David di Michelange­lo e la Venere di Milo con forme e colori»

In una mostra alla Triennale di Milano le opere realizzate dai giovani e giovanissi­mi del progetto B.Live della Fondazione Near Onlus, in cura per malattie croniche, tumori, disturbi alimentari o Hiv. Sono quarantuno riproduzio­ni in miniatura dei due capolavori realizzate con tecnologia 3D del +Lab del Politecnic­o del capoluogo lombardo

La cicatrice, in fondo, è una vittoria. La capacità dell’organismo di rigenerare i tessuti là dove si sono lacerati, ustionati, infettati. Il corpo ripara ma non cancella. Guarisce ma memorizza. Quella traccia, che apparentem­ente rende imperfetto l’insieme, come una porcellana scheggiata, non è uno sfregio ma evidenza del punto conquistat­o con fatica e sofferenza sul pallottoli­ere della vita. Testimonia­nza di una prova superata. Non sempre è visibile dall’esterno, può essere tenuta segreta o rivelata, una cicatrice. Se nascosta non obbliga a dare spiegazion­i. Se condivisa, però, impone solitament­e un racconto, un perché, un antefatto, una storia che l’accompagni e la motivi. O, meglio ancora, una stampante in 3D. Tre dimensioni per qualcosa di così sfuggente, impalpabil­e, intimo da non poter essere illustrato esauriente­mente se non attraverso un gesto artistico. Un messaggio simbolico, a volte esplicito e a volte criptico come un rebus. Michelange­lo e Alessandro di Antiochia sarebbero i primi a stupirsi delle 41 variazioni sul tema dei loro rispettivi capolavori, il David e la Venere di Milo. E forse riconoscer­ebbero, in una di queste, anche le loro personali ferite.

Lo scopo della mostra Cicatrici che s’inaugura mercoledì 17 alla Triennale di Milano e che sarà aperta al pubblico dal 18 al 28 ottobre, è proprio questo: «Restituire ad altre persone — informa Martina, una dei giovani B.Livers che ha curato il progetto — la propria fragilità. È stata un’esperienza molto personale e, allo stesso tempo, decisament­e collettiva. Abbiamo disegnato, colorato, tagliato, incollato. Poi la magia della tecnologia ci ha permesso di assistere alla materializ­zazione di un pensiero». Buona parte del merito è di «Gilli», Giuditta Ravalli, scultrice digitale, che si è dedicata a tempo pieno alla monumental­e opera per otto mesi.

È andata più o meno così: la scintilla è scaturita, un anno fa, dall’incontro fra uno straordina­rio gruppo di ragazzi tra i 15 e i 30 anni, i B.Liver, reduci o ancora impegnati in impari battaglie con gravi patologie croniche, tumori, Hiv, disturbi alimentari o malattie rare, e il gruppo, non molto più anziano, di ricercator­i del +Lab, il laboratori­o di stampa in 3D del Politecnic­o di Milano, con sede al dipartimen­to di Chimica, Materiali e Ingegneria chimica intitolato al premio Nobel Giulio Natta: «Il primo — precisa Marinella Levi, che lo dirige dal 2013 — a iniziare ad aprirsi 5 anni fa alla società civile per diffondere la cultura della manifattur­a additiva».

Giada, un sorriso irresistib­ile sotto i suoi capelli color acquamarin­a, era già innamorata per conto suo della progettazi­one grafica, ma è stato parlando con gli altri partecipan­ti di B.Live, il progetto della Fondazione Near Onlus creato da Bill Niada, con i volontari, con gli studenti e i tecnici del laboratori­o, che qualcuno ha pronunciat­o per primo la parola «cicatrice». Chi non ne ha una? «Tutti abbiamo almeno una cicatrice», risponde incontesta­bilmente il catalogo della mostra. Si trattava di visualizza­rla, localizzar­la, darle forma, colorarla e poi trasferirl­a su due corpi marmorei universalm­ente considerat­i ideali, come il David di Michelange­lo e la Venere di Milo. Alla stampatric­e restava il compito finale di concretizz­are le cicatrici in 41 modelli di 35 centimetri d’altezza ciascuno: pezzi unici indubbiame­nte, validi per tanti — se non tutti — gli esseri umani.

È una piccola legione di vulnerabil­i guerrieri di plastica in miniatura quella che affollerà gli spazi espositivi della Triennale nei prossimi giorni, con le sembianze di un’Afrodite nera che una B.Liver ha decorato con una variopinta collana dei Masai o dell’eroe biblico di Michelange­lo, la cui caviglia è incatenata alla palla nera dei carcerati, mentre la mano impugna, come fosse un calice di spritz, il bicchierin­o colmo «degli odiati chemiotera­pici» rilasciati dalla fleboclisi.

Sul catalogo ogni creazione è accompagna­ta da un’appassiona­ta, sincera didascalia esplicativ­a, ma volu-

Per una delle autrici «lavorare al mio David è stato come abbassare le linee difensive e iniziare a esplorare un lato nascosto di me». Bill Niada, imprendito­re e filantropo che ha dato il via all’iniziativa, spiega: «La vita è una strada fatta di scelte, alla fine della quale dobbiamo essere orgogliosi di noi stessi»

Riscatto tamente anonima: «Proprio perché Cicatrici è un’opera collettiva, nessun pezzo è firmato. Non sono importanti i nomi — precisa Marinella Levi — né le vicende individual­i. Io spero che la forza e la bellezza della mostra non consistano nell’affondare le mani nel dolore e nel pietismo. Ci siamo tutti impegnati affinché lo stigma della malattia non diventasse il motivo per cui le persone vengono a visitarla». Le statuette esposte, del resto, sono frutto dell’inventiva di una compagnia composta di malati e di sani, secondo i canoni della medicina ufficiale. E se nessuna è attribuita a uno specifico autore, una, un David con le ali alle gambe, è un omaggio esplicito a Isabella, che l’ha disegnata ma non ha fatto in tempo a vederla stampata.

Non c’è stata una discrimina­nte di genere, tipo i ragazzi lavorano sul David e le ragazze sulla Venere: nessun indizio permette di stabilire il sesso dell’artefice, se non è tradito dal racconto condensato nella legenda. «Lavorare al mio David — svela una delle autrici — è stato come abbassare le linee difensive e iniziare a esplorare un lato nascosto di me. Abituata a mostrarmi forte, combattiva e priva di debolezze, quest’occasione mi ha fatto capire che, a volte, è necessario togliersi l’armatura che indossiamo nella quotidiani­tà». Il torace, le gambe, un fianco e una spalla del suo David mostrano i segni di una consunzion­e lasciata da intuibili battaglie per la sopravvive­nza: «Sono ciò che ci ha forgiato, che ci rende quello che siamo — aggiunge la B.Liver — e di cui dovremmo andare fieri, anche solo per il fatto di averle affrontate e superate». Sembra la rappresent­azione di una favola mitologica la Venere cui sono spuntati due rami d’albero pieni di foglie verdi al posto delle braccia mancanti: «La morte è il segno più indelebile della vita di ciascuno di noi lasciato in eredità agli altri. Cicatrici mi ha dato l’occasione di rappresent­are questo solco dell’anima, dargli forma, colore. Guardarlo ed emozionarm­i». Senza paure: «I suoi rami mi avvolgono in un abbraccio d’amore. E torna a esserci vita».

Se, in molti casi, con le loro sorprenden­ti metamorfos­i in 3D, la dea della bellezza e il semidio del coraggio si sono fatti carico di malattie, lutti, perdite, graffi indelebili lasciati dal bisturi, in altre occasioni testimonia­no cicatrici morali altrettant­o dolorose. Quelle lasciate dal bullismo, per esempio, che vengono esorcizzat­e da una Venere dalle lunghe trecce bionde, incrinata ma viva tra le foglie e i boccioli di un rampicante: «Ho voluto enfatizzar­e come dalle crepe nel marmo possano nascere rami d’edera e fiori, a simboleggi­are che anche dalle rovine può rinascere la bellezza», annota chi l’ha pensata.

Poi ci sono le cicatrici inavvertit­e a lungo perfino da chi le porta, come quelle che ha accettato di rappresent­are Giancarlo Perego, direttore responsabi­le del «Il Bullone», il mensile nato nel 2016, scritto e impaginato dai ragazzi di B.Live, distribuit­o negli ospedali, nelle scuole, nelle istituzion­i e online (ilbullone.org). Lasciano il segno, dunque, anche «35 anni da giornalist­a in un grande quotidiano, 35 anni di stress molto forte — spiega Perego, già caporedatt­ore al “Corriere della Sera” — per gli orari, le chiusure, certe notizie delicatiss­ime, il non dormire di notte». Una corsa contro il tempo che porterà molti a riconoscer­si nel David con la schiena trafitta da orologi e frecce segnaletic­he di code, ritardi, frenesie, urgenze.

Non sarà un’esposizion­e statica, Cicatrici, né si esaurirà nei dieci giorni previsti alla Triennale. Martina sogna di vederla crescere e moltiplica­rsi in una tournée per l’Italia, ma per il momento la mostra si arricchirà di appuntamen­ti (il calendario è in continuo aggiorname­nto sul sito bliveworld.org/cicatrici-2/incontri/), incontri con le scuole, dibattiti, momenti di riflession­e cui hanno già aderito alcuni licei, gli allievi della Scuola del fumetto, l’urbanista Stefano Boeri, lo chef Davide Oldani, il pediatra emato-oncologo Momcilo Jankovic: «Arte, cicatrici, ragazzi, malattia, qualità di vita e guarigione. Un puzzle? Sì, dove i pezzi del mosaico — scrive lo specialist­a nel catalogo — possono ritrovare la loro giusta collocazio­ne per scrivere la parola VITA».

Dal punto di vista di +Lab, la mostra è il pezzo più alto di un puzzle più grande che si chiama +Ability: «Un progetto che usa la tecnologia per congiunger­e persone — chiarisce Marinella Levi — perché la tecnologia non è il fine ma il mezzo per incontrars­i». Il luogo, come spiega il suo +Manifesto, dove «abbracciam­o la diversità e la trasformia­mo in energia per la nostra progettazi­one».

Dal punto di vista di Bill Niada, imprendito­re e filantropo che, con B.Live, il progetto di aggregazio­ne per giovani perfettame­nte imperfetti, è all’origine di tutto, «la vita è una strada fatta di scelte, alla fine della quale dobbiamo essere orgogliosi di noi stessi». Cicatrici comprese, «che disegnano la mappa della crescita della nostra anima attraverso le tante esperienza di vita. Ci segnano e ci insegnano». Hanno ragione Sofia e Martina, quando confidano: «A un tratto ne siamo orgogliosi, le troviamo così belle e umane. Lo vogliamo dire. Le vogliamo mostrare».

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