Corriere della Sera - La Lettura
Due icone che ci parlano di perfezione e imperfezione
Due icone dell’arte occidentale. Disseminate nel sistema dei media e dei social. Sculture «mitiche», che propongono due declinazioni diverse e opposte del concetto di bellezza. Il David di Michelangelo, a proposito del quale Vasari scrisse: «Veramente che questa opera ha tolto il grido a tutte le statue moderne et antiche». Siamo dinanzi a una tra le vette del Rinascimento, tra le più alte espressioni della sapienza manuale e del talento tecnico di un artista. Ritratto di un eroe perfetto. E la
Venere di Milo: una divinità imperfetta, priva di braccia, simile alle modelle disabili che oggi sfilano in tante passerelle d’alta moda. Eppure, perfezione e imperfezione nascondono lati perturbanti, oscuri. Il marmo del David cela tante segrete inesattezze. I cosiddetti «taroli»: minuscoli fori che Michelangelo stuccò, rendendo levigata la superficie del suo capolavoro. E la
Venere di Milo? A distanza di secoli, ci seduce molto di più di tante sculture neoclassiche. Evoca l’invisibile, quello che non vediamo più: le parti del corpo della dea che sono state perse. Suggerisce il mistero da sempre insito nelle rovine classiche. Ci parla non solo della sua purezza formale ma del mondo perduto da cui proviene. E ci fa capire per quale ragione troviamo affascinanti tante donne «diversamente belle». Ma, forse, il David e la Venere di Milo continuano ad ammaliarci soprattutto per altro. Pur nella loro differenza, ci fanno cogliere una verità: come osservò Umberto Eco, ciò «che cerchiamo nell’opera d’arte non è (…) la rispondenza a un canone del gusto, ma a un criterio che è interno, dove l’economia e la coerenza formale donano la legge alle proprie parti».