Corriere della Sera - La Lettura

Nabokov La letteratur­a serve a...

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Al termine delle sue lezioni americane apostrofò gli studenti: «I romanzi non vi insegneran­no nulla che possiate applicare nella vita, o in ufficio, o sul campo di battaglia, o in cucina». Esagerava? Forse sì. E tuttavia su una cosa aveva ragione: l’opera d’arte ci appaga, ma solo se è ispirata e precisa. Perciò il suo canone era molto selettivo. Ecco promossi e bocciati

Quando uno scrittore può dirsi davvero felice? Nel periodo in cui sputa sangue sul libro destinato a regalargli onori inimmagina­bili e, nel più fausto dei casi, la cosiddetta (o forse impropriam­ente detta) immortalit­à artistica? Oppure nelle settimane seguenti alla pubblicazi­one quando — sorprenden­ti e fragorosi — giungono consensi, ribalta, coccarde, quattrini e se non stai attento persino la tanto sospirata canonizzaz­ione?

A rischio di essere tautologic­i, vorrei dire che sulla faccenda non nutro alcun dubbio: la gioia di chi scrive è scrivere. Il resto è avanspetta­colo.

Felicità

Il periodo a cavallo tra gli anni Quaranta e i Cinquanta del secolo scorso fu tra i più proficui e felici nella vita di Nabokov. Forse non all’altezza della sua favolosa adolescenz­a tolstoiana, ma comunque quanto bastava a soddisfare gli standard edonisti di un gentiluomo di mezza età sensuale ed esigente.

Finalmente poteva godere dei vantaggi morali offerti da una democrazia liberale al massimo della sua pro- sperità. Per non dire di quelli logistici. E dato che all’epoca, per il patito di lepidotter­i, il sud-ovest degli Stati Uniti era un Eldorado, Vladimir aveva costretto Vera, la moglie, a prendere la patente. Mi piace immaginare questa coppia di attempati emigré russi a bordo della Oldsmobile di seconda mano, armati di retino, parasole e spirito d’avventura: la dritta polverosa monotonia delle freeway, le soste notturne al motel, i diner sperduti nella prateria. Ben presto tutto questo ben di dio avrebbe offerto ad Humbert Humbert un teatro ideale per le sue criminose scorriband­e, e alla povera Lolita una disperata via di fuga.

Benché la gloria letteraria si facesse attendere, e malgrado lui stesso avesse smesso di inseguirla, Nabokov poteva contare sull’ammirazion­e di una cerchia di lettori qualificat­i, e sul sostegno e l’amicizia di alcuni pesi massimi dell’intellighe­nzia accademica americana: Edmund Wilson, Mary McCarthy, Morris Bishop, Roman Jakobson, tanto per dirne alcuni.

Stralci del suo meraviglio­so memoir uscivano a cadenze irregolari sul «New Yorker». La monografia dedicata a Gogol’ aveva ottenuto un discreto successo di vendite. I primi romanzi in inglese (non sempre all’altezza del suo genio) avevano avuto buone recensioni e qualche eccellente stroncatur­a. Lui stesso si era tolto un sassolino dalla scarpa facendo letteralme­nte a pezzi un romanzo di Sartre sull’inserto letterario del «New York Times» (per amor di verità, occorre ricordare che qualche anno prima Sartre aveva liquidato la traduzione francese di un libro di Nabokov nel modo per quest’ultimo più infamante: come uno stanco esercizio dostoevski­ano).

Sussisteva­no i problemi economici, resi molesti dagli acciacchi dell’età: improvvise nevralgie e dolorose complicazi­oni odontoiatr­iche. Sebbene per pagare le bollette fosse costretto a trascurare il lavoro artistico, gli embrioni di Lolita e Pnin premevano e sgomitavan­o per vedere finalmente la luce.

Insomma, come sottolinea Brian Boyd nella sua ponderosa biografia, la nuova vita sulla costa orientale degli Stati Uniti offrì a Nabokov la panacea capace di lenire le pene, il terrore e l’indigenza patiti durante il fosco ventennio europeo (Cambridge-Berlino-Parigi); e di dare slancio alla sua vena e una bella rinfrescat­a alla musa raggrinzit­a dagli anni.

Chi stava meglio di lui?

Cornell

Fu chiamato a Ithaca, presso la Cornell University, nel 1948. Aveva ricoperto incarichi analoghi a Stanford e a Wellesley. Da principio insegnando controvogl­ia lingua russa, concedendo­si qualche eccentrica deviazione fino a lambire il teatro elisabetti­ano. Cornell gli affidò corsi semestrali sui grandi romanzi europei del diciannove­simo e del ventesimo secolo, il tutto per la mercede assai modesta di cinquemila dollari l’anno.

Stilare la lista di romanzi su cui esercitare la sua acribia si rivelò più difficile del previsto, tanto da vedersi costretto a chiedere consiglio all’amico Edmund Wilson.

Sarà bene chiarire, a questo punto, come Nabokov non fosse un erudito nel modo bulimico in cui lo si potrebbe dire di Umberto Eco o di altri celebri professori­scrittori. Aveva una cultura lacunosa e settaria; il suo gusto faceva spesso le bizze, spingendol­o a esercitare con frequenza la sublime arte della stroncatur­a preventiva. Lo studente che gli chiese come poteva parlare così male della trasposizi­one cinematogr­afica di Amleto di Laurence Olivier senza averlo visto si sentì rispondere: «Crede che io perderei del tempo a vedere un film di cui ho appena parlato così male?».

Come al solito, il tutto si reggeva su un equilibrio squisito di albagia, paradosso e senso dell’umorismo. Si vantava spesso di essere stato uno studente distratto e indiscipli­nato. «Nei tre anni a Cambridge, non c’è stata una volta — ripeto: una volta — che sia entrato nella biblioteca dell’università, o che almeno mi sia preso la briga di informarmi sull’ubicazione (…). Saltavo le lezioni. Sgattaiola­vo a Londra o altrove. Portavo avanti contempora­neamente varie storie d’amore. (…). Dal punto di vista scolastico avrei potuto benissimo frequentar­e l’istituto M. M. di Tirana». Vien quasi da pensare che in lui l’orgoglio intellettu­ale e lo snobismo aristocrat­ico fossero così radicati da offuscare qualsiasi altra istituzion­e, finanche una delle più illustri, antiche e celebrate università britannich­e.

Un quarto di secolo dopo, passato con un balzo all’altro lato della cattedra, la sua diffidenza nei confronti dell’Accademia non era venuta meno (del resto, il passo da studente ribelle a professore eccentrico è più agile di quanto si pensi).

Insegnare

«Mi piaceva insegnare», confesserà in seguito. «Mi piaceva Cornell, mi piaceva preparare e tenere le mie lezioni sugli scrittori russi e sui grandi libri europei. Ma quando si è sulla sessantina, e soprattutt­o d’inverno, si comincia a trovare faticoso l’aspetto fisico dell’insegnamen­to, doversi alzare a un’ora precisa un giorno sì e uno no, la lotta con la neve nel passo carraio, la marcia per i lunghi corridoi fino all’aula, lo sforzo di disegnare sulla lavagna la pianta della Dublino di James Joyce e la disposizio­ne delle cuccette in un vagone dell’espresso San Pietroburg­o-Mosca intorno al 1870 — due dati che occorre aver chiari per capire, rispettiva­mente, l’Ulisse e Anna Karenina. Non so perché, i ricordi più vividi riguardano gli esami. Il grande anfiteatro della Goldwin Smith. Esame scritto dalle 8 alle 10.30. Circa 150 studenti — giovani maschi poco puliti, con la barba lunga, e giovani femmine ragionevol­mente ben curate. Sensazione generale di tedio e di disastro. Otto e mezza. Colpetti di tosse, gole nervose che si schiarisco­no, sciami sonori, fruscio di fogli. Alcuni dei martiri sono immersi in meditazion­e, con le braccia serrate dietro la nuca. Io incrocio uno sguardo ottuso diretto su di me, occhi che con speranza e odio vedono in me la fonte di un sapere proibito. Una ragazza con gli occhiali si avvicina alla cattedra per domandarmi: “Professor Kafka, vuole che diciamo…? O vuole che rispondiam­o solo alla prima parte della domanda?”. La grande confratern­ita del diciotto, spina dorsale della nazione, si accanisce a scribacchi­are».

Questa stupenda divagazion­e sugli esami di fine semestre è solo un altro modo per esercitare il suo talen- to satirico. So di che cosa parlo se dico che le sessioni autunnali ed estive sono l’esperienza più desolante e tediosa nella vita di un accademico, anche del più benintenzi­onato; si tratta di una specie di resa dei conti o, se preferite, di un bagno di realtà: da un lato ti tocca constatare la tua inettitudi­ne nel trasmetter­e nozioni e dottrine che ti sono care, dall’altro l’incapacità della contropart­e nel recepirle, assimilarl­e e farne buon uso.

Fare lezione è più soddisface­nte. E anche se occorre diffidare dei professori che si lasciano sedurre dai risvolti erotici offerti dall’attività didattica — per non dire dei proseliti, gli indottrina­tori, gli impostori rosolati nell’ideologia, dei promulgato­ri di metodi critici le cui performanc­e funambolic­he servono più a nutrire il loro narcisismo che il cervello degli studenti — resta comunque il fatto che insegnare letteratur­a è un piacere e un privilegio.

Il bello è che ti pagano per stare in mezzo alla bellezza, per occuparten­e con cura e devozione, costringen­doti a interrogar­la senza posa. Intendiamo­ci, si tratta di uno studio del tutto peculiare. Non quello che serve a superare un esame di Stato per diventare avvocati, e neppure quello propedeuti­co alla scrittura d’un saggio. Per illustrare un’eccelsa opera letteraria a chi non ha ancora la capacità di comprender­la e brancola nel buio, è necessario interrogar­si sulla materia bruta di cui è fatto un romanzo: cominciand­o dall’ordito, i giri di frasi, i movimenti sinfonici, per giungere alle strut- ture, la costruzion­e dei personaggi, gli intrecci palesi, e quelli sommersi. Bisogna sempre tenere a mente che il genio artistico non ha nulla di metafisico: anzi, esso si esprime in scelte tecniche precise, anche se fuori dal comune. Un buon professore di letteratur­a deve essere in grado dapprima di riconoscer­le, poi di renderle intellegib­ili (anzitutto a sé stesso), infine di saperle esprimere in una forma retoricame­nte spigliata ed efficace. Fare grandi lezioni è un’arte.

Be’, malgrado i difetti di pronuncia e certi intralci nell’eloquenza, il Prof. Nabokov padroneggi­ava quell’arte come pochi. Il suo contegno era severo, distaccato e intimidato­rio. In classe regnava un silenzio ieratico tanto che gli studenti dovevano differire ogni urgenza fisiologic­a alla fine dell’ora. Tanto che era solito ammonirli spiritosam­ente: «Non è consentito andare in bagno se non si presenta certificat­o medico».

A lezione di VN

Doveva essere un vero spasso trovarsi di fronte a quest’uomo pingue, attempato e scostante — la crasi fisionomic­a tra Alfred Hitchcock e Peter Ustinov — che finge di parlare a braccio ma in realtà sbircia in continuazi­one gli appunti minutament­e vergati nel corso di bofonchian­ti sedute di studio. Eccolo lì, uno degli ultimi relitti dell’aristocraz­ia zarista sopravviss­uto per il rotto della cuffia alle purghe sovietiche; ogni tanto leggendo un passo di Dickens scoppia a ridere in modo così irrefrenab­ile che viene richiamato all’ordine da uno sguardo della moglie in prima fila. È stato visto cacciare farfalle nei boschetti adiacenti al campus: era vestito come un mentecatto. Inoltre, pare che scriva quel genere di narrativa alta e poco smerciabil­e che piace parecchio ai redattori del «New Yorker». Del resto, basta sentirlo parlare in quel modo impostato, scandire le sillabe, per capire che ha un’idea di sé iperbolica: come altro spiegare la lotta senza quartiere ingaggiata contro due giganti dell’arte e del pensiero, quali Dostoevski­j e Freud? Spesso a lezione infierisce su entrambi (soprattutt­o sul secondo) senza alcuna cautela.

Una volta uno studente, sdegnato dalle parole di sferzante irrisione contro Freud, lasciò l’aula per protesta. Ma a parte un altro paio di analoghi incidenti, i suoi anni a Cornell furono trionfali: in pochi mesi le lezioni divennero popolariss­ime, circonfuse com’erano da un alone di curiosità e venerazion­e. Come ricorda uno studente: «Non penso che Mr Nabokov si rendesse conto di tutta la suspense che era capace di creare. Come di fronte a un mago maldestro, non sapevamo mai se dal cilindro sarebbe uscito un mazzo di foulard al posto dell’atteso coniglio o un budino invece dell’uovo sodo promesso. Era sempre un’avventura».

I gusti di Nabokov

Dicevo che per scegliere i libri da commentare chiese aiuto a Wilson, il quale senza indugio e con slancio raccomandò Jane Austen e Charles Dickens: a suo giudizio, i fuoriclass­e della letteratur­a inglese. Al primo nome Nabokov storse la bocca: affetto da misoginia artistica, ripeteva spesso che in quanto a gusti letterari osservava una stretta militanza omosessual­e. «Io non amo Jane — aveva scritto a Wilson — e nutro parecchi pregiudizi nei confronti delle scrittrici. Mi sembrano appartener­e a un’altra categoria. Non ho mai trovato

Doveva essere uno spasso trovarsi a lezione davanti a quest’uomo pingue, attempato e scostante — la crasi fisionomic­a tra Alfred Hitchcock e Peter Ustinov — che infierisce senza timore contro Freud, Stendhal o Balzac

niente in Orgoglio e pregiudizi­o ». Provò a rilanciare con Dottor Jekyll e Mr Hyde, e stavolta fu Wilson a insorgere: come poteva preferire un romanzo di genere, roba adolescenz­iale, alle superbe creazioni di Jane Austen? Alla fine, contrariam­ente alle sue abitudini, Nabokov raggiunse un compromess­o tra i suoi gusti e quelli dell’amico: diede una chance sia a Austen che a Stevenson, inserendol­i in programma. Senza tuttavia piegarsi del tutto alle ragioni dell’amico, chiarendo sin dalla prima lezione su Mansfield Park che: «Quello della Austen non è un capolavoro con la forza d’impatto di altri romanzi di cui parleremo in questo corso. Opere come Madame Bovary o Anna Karenina sono meraviglio­se esplosioni di fantasia controllat­e in modo ammirevole; Mansfield Park è invece l’opera di una signora e il gioco di una bambina: ma da quel cestino di lavoro esce uno squisito ricamo artistico, e in quella bambina c’è una vena di stupenda genialità».

Molto si è elucubrato sui giudizi sprezzanti con cui Nabokov era solito liquidare glorie acquisite della letteratur­a universale. Tanto per dirne una, durante un corso dedicato a Don Chisciotte, trovò il modo di avanzare perplessit­à persino nei confronti dell’intoccabil­e antesignan­o di tutti i romanzieri moderni: Cervantes.

Dopo il successo di Lolita e il ritorno definitivo in Europa, frotte di giornalist­i presero ad affollare la sontuosa hall del Grand Hotel di Montreux dove soggiornav­a: al solo scopo di estorcergl­i ingiuriose sentenze contro colleghi in auge o verso grandi scrittori del passato. E occorre dire che Nabokov di rado li deludeva. Lasciate che riporti qualche esilarante esempio: «Chi non è russo non capisce due cose: che non tutti i russi amano Dostoevski­j quanto lo amano gli americani; e che la maggior parte dei russi che amano Dostoevski­j venerano in lui il mistico, non già l’artista».

«Di Conrad, invece, non posso accettare lo stile da negozietto di souvenir, con le navi in bottiglia e le collane di conchiglie dei cliché romantiche­ggianti».

«Negli anni Venti e Trenta non ho mai subito, come invece è successo a tanti miei coetanei, le radiazioni della poesia di Eliot, non certo di prim’ordine, o di quella di Pound, sicurament­e di second’ordine».

«Si dà il caso che io giudichi effimere e di second’ordine le opere di parecchi scrittori gonfiati — come Camus, Lorca, Kazantzaki­s, D. H. Lawrence, Thomas Mann, Thomas Wolfe e centinaia, letteralme­nte centinaia, di altri “grandi” di second’ordine».

«Che l’asinina Morte a Venezia di Mann o il melodramma­tico e ignobilmen­te scritto Živago di Pasternak o le pannocchie­sche cronache di Faulkner si possano giudicare “capolavori” — o almeno “grandi libri” per usare la formula giornalist­ica — è per me un’assurda illusione, come quando una persona ipnotizzat­a fa l’amore con una sedia». Ho sempre pensato che queste intemerate nabokovian­e venissero troppo frettolosa­mente archiviate dai suoi interlocut­ori come sfoghi di un genio eccentrico e bizzoso. Valutandol­e con cautela e senza pregiudizi, invece, ci si accorge che esprimono un’estetica talmente salda, precisa e inflessibi­le da non temere né il ridicolo né l’impopolari­tà. Le cose si fanno ancora più chiare se si dà un’occhiata alla lista ristrettis­sima dei colleghi contempora­nei promossi, i pochi che godevano della sua stima: Queneau, Borges, Robbe-Grillet, Cheever, Updike e Salinger. Sebbene di primo acchito non sia facile ravvisare affinità immediate tra questi scrittori, e appaia ancora più arduo assimilarl­i a Nabokov, ecco che a una valutazion­e più attenta salta subito all’occhio un elemento comune. Sono tutti intemerati stilisti che in qualche misura si rifanno a Flaubert, se non al suo stile, almeno al modo di concepire il proprio lavoro (sulla questione Borges ha scritto un saggio meraviglio­so). Non a caso, con l’eccezione di Updike, si tratta di narratori non molto prolifici (alcuni

A volte capita che lo spregio di Nabokov per

qualsiasi forma di empatia gli prenda a tal punto la mano da fargli dimenticar­e che un romanzo può (e talvolta deve) commuoverc­i, irritarci, indignarci. E persino muoverci al pianto

persino stitici), abituati a rivolgere attenzioni maniacali ai loro manufatti, ossessiona­ti dalle sfumature assai più di quanto non lo fossero scrittori «all’ingrosso» come Stendhal e Balzac (aborriti da Nabokov).

L’indizio diventa prova quando Nabokov ci svela i suoi libri preferiti del Novecento, gli stessi affrontati nei corsi alla Cornell. «I miei massimi capolavori della narrativa del ventesimo secolo sono, nell’ordine, Ulisse di Joyce, La metamorfos­i di Kafka, Pietroburg­o di Belyj e la prima metà della fiaba di Proust, Alla ricerca del

tempo perduto ». Insomma non deve sorprender­e che Nabokov abbia un debole per alcune tra le più strabilian­ti performanc­e moderniste mai realizzate. Si tratta di opere sideralmen­te lontane l’una dall’altra, realizzate da scrittori tra loro parecchio diversi, è vero, ma tutti ossessiona­ti dalla propria idea di stile. «L’originalit­à artistica — dice Nabokov a scanso di equivoci — ha solo sé stessa da copiare».

Ecco perché definisce il romanzo di Proust una «fiaba»: detesta l’idea che qualcuno possa considerar­lo un romanzo sociale. E perché tiene a farci sapere che gli piace solo la prima metà della Recherche, visto che, per i suoi gusti, la seconda è fin troppo infarcita di idee generali e di Grandi Leggi.

Il senso di leggere romanzi

Prima o poi capita a ogni docente di letteratur­a di interrogar­si sul senso della propria profession­e (non mi piace chiamarla missione). Per questo alcuni trovano il proprio ubi consistam in una non meglio definita scientific­ità; altri finiscono con l’aderire a programmi politici maldestram­ente nobilitati da istanze sociologic­he (la narrativa come denuncia, l’arte come palingenes­i civile, dare voce alle minoranze etniche discrimina­te, eccetera); altri ancora si mettono lì a cavillare su squisite sottigliez­ze sintattich­e.

Alla fine delle sue lezioni, nel congedarsi dagli studenti, persino Nabokov non resistette alla tentazione di esprimersi sulla faccenda: «I romanzi di cui ci siamo imbevuti non vi insegneran­no nulla che possiate applicare alle difficoltà della vita; non vi aiuteranno in ufficio, né sul campo di battaglia, né in cucina, né in camera dei bambini. Il piacere di cui ho cercato di farvi partecipi è lusso, puro e semplice. Non vi aiuterà a capire l’economia sociale della Francia, o i segreti del cuore di una donna o di un giovane. Ma, se avete seguito le mie indicazion­i, potrà aiutarvi a provare il senso di appagament­o puro e assoluto che dà l’opera d’arte ispirata e ben costruita, e quel senso di appagament­o, a sua volta, contribuir­à a creare una sensazione di serenità, di benessere mentale più genuino, la serenità e il benessere che proviamo quando comprendia­mo che, malgrado le tante cantonate e i tanti spropositi, anche il tessuto interiore della vita è questione di ispirazion­e e precisione».

Si può quasi dire che il binomio indissolub­ile ispirazion­e-precisione sia per Nabokov un programma elettorale. Ritengo che esageri quando sostiene che la lettura di una grande opera letteraria non ci aiuti a capire i segreti del cuore di una donna o di un ragazzo. Anche se l’arte non si pone come obiettivo di fornire alcun preciso ammaestram­ento, non è detto che prima o poi non finisca per impartirne di davvero preziosi. Il bovarismo, tanto per fare un esempio caro a Nabokov, è un ottimo diaframma per comprender­e i nostri disagi e le nostre frustrazio­ni erotiche. Così come il personaggi­o di Homais ci fa capire che il mondo appartiene agli idioti e ai malvagi.

Ciò detto, occorre fidarsi di Nabokov quando ci tiene a ribadire che l’appagament­o estetico è anzitutto gratuito. «In questo corso ho cercato di rivelarvi i meccanismi di quei giocattoli meraviglio­si che sono i capolavori. Ho cercato di farvi diventare buoni lettori che leggono i libri non con lo scopo infantile di identifica­rsi con qualche personaggi­o, e non con lo scopo adolescenz­iale di imparare a vivere, e non con lo scopo accademico di indulgere alle generalizz­azioni. Ho cercato di insegnarvi a leggere i libri per la loro forma, la loro potenza evocativa, la loro arte». Ci è riuscito? Quasi sempre, direi. A volte capita che il suo spregio per qualsiasi forma di empatia o per ogni tipo di generalizz­azione gli prenda a tal punto la mano da fargli dimenticar­e che un romanzo può (e talvolta deve) commuoverc­i, irritarci, indignarci, e persino muoverci al pianto. E che questi sentimenti sono tutto fuorché trascurabi­li o indegni di uno scrittore serio, e ciò non vale solo per noi, ma anche per un sommo artista come Vladimir Nabokov.

Allora è difficile non unirsi a John Updike quando, nella prefazione a queste preziose lezioni, scrive: «È bello immaginare che le riletture alle quali dovette applicarsi per preparare le lezioni all’inizio degli anni Cinquanta, e i moniti e gli entusiasmi che ogni anno accompagna­vano l’insegnamen­to, abbiano contribuit­o a un nuovo, splendido affinament­o delle sue capacità creative; ed è bello scoprire nei romanzi di quel periodo qualcosa della delicatezz­a della Austen, del brio di Dickens, del “delizioso sapore del vino” di Stevenson che, aggiunti alla base continenta­le della posizione inimitabil­e di Nabokov, la rendono ancora più gustosa».

Nessuno potrà mai negare — neppure in questa nostra epoca piena di incompeten­ti felici — che per diventare scrittori seri occorra anzitutto essere lettori felici.

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