Corriere della Sera - La Lettura

Il turbocalci­o che prepara la Superlega

Sempre più investimen­ti e più social in un rilancio perpetuo per rimanere a galla

- Di MARIO SCONCERTI

Esempio virtuoso Il campionato spagnolo ha meno del 40 per cento di giocatori stranieri grazie alla cura rivolta al settore giovanile

Ho sempre pensato che il calcio non abbia una propria indipenden­za naturale ma dipenda in modo quasi diretto dalla realtà del Paese che lo ospita. In altre parole, una nazione felice tende a giocare un calcio felice. Una nazione triste giocherà un calcio triste. È il mondo che determina il calcio con il suo modo di essere. Non viceversa. Così oggi il calcio è globale, un po’ uguale dovunque, meno individual­e, più protetto da un’idea complessiv­a. Infatti nascono molto più raramente i fuoriclass­e. C’è più qualità media, meno qualità infinita. Messi e Ronaldo sono già di una generazion­e che arriva da lontano, fuori da questo tempo.

Tutto comincia nel 1996, quando viene votata in Europa la libera circolazio­ne dei lavoratori. Allora si potevano far giocare al massimo tre stranieri per squadra. Dopo quella sentenza il numero divenne illimitato. Pochi anni dopo arrivò l’altra novità rivoluzion­aria, la television­e sui campi. Il calcio è stato per un secolo uno sport clandestin­o, lo vedevano al massimo trecentomi­la persone in Italia, quelle che andavano allo stadio. Il bar sport nasce così, è l’esigenza di parlare di qualcosa che nessuno ha visto. La saggezza nasce dall’ignoranza comune. Solo quat- tro-cinque giornalist­i in Italia avevano il privilegio di seguire tutte le grandi partite. La nazione ne sentiva parlare.

La television­e crea partecipaz­ione e competenza, la gente vede, si evolve, tutto lo spettacolo cresce. Cresce soprattutt­o il costo del calcio. In venti anni il prezzo di un buon giocatore è cresciuto del trecento per cento, il suo ingaggio anche del cinquecent­o. È questa lievitazio­ne che ha portato tanti stranieri nei campionati più ricchi, Inghilterr­a, Italia, Germania e anche Spagna. Non è scarso patriottis­mo, solo calcolo. I giocatori inglesi o italiani sul mercato sono circa 200, i giocatori del mondo sul mercato sono un numero indefinito molte volte più grande, quindi costano per forza meno.

C’è una piccola eccezione seccante, si chiama Spagna. Ha poco meno del 40% di stranieri, tanto, ma sempre meno di Inghilterr­a e Italia. Perché? Per-

ché in questi ultimi venti anni si sono dati molto da fare con i settori giovanili. Hanno creato le seconde squadre, hanno reso abbastanza automatico il ricambio e hanno avuto alcuni maestri eccezional­i, primo fra tutti Cruijff, da cui discende in modo diretto Guardiola, ma anche Del Bosque e Luis Enrique. Hanno reso inoltre molto popolare un gioco dal nome strano, il fut

sal, che è il nostro calcetto. Negli spazi stretti di un campo poco più grande di quello da tennis, il gioco dei passaggi brevi e continui viene naturale. Lo spazio soffocato rievoca la strada o l’oratorio dei vecchi tempi, il massimo per imparare a controllar­e la palla in ogni situazione. La Spagna ha da tempo la miglior tecnica di squadra al mondo. E i migliori risultati.

Il calcio europeo è diventato uno spettacolo, pura tecnologia avanzata. A spingerlo così avanti sono stati l’abi- tudine al capitalism­o e all’organizzaz­ione degli eventi, ma soprattutt­o i soldi del petrolio. Sceicchi, Stati sovrani come il Qatar, oligarchi russi, neocapital­isti cinesi, hanno cercato la loro eternità attraverso il calcio, trasforman­done immediatam­ente le gerarchie. Prima del Duemila, prima dei soldi estremi, il Chelsea aveva vinto due scudetti in cento anni, il City uguale, il Paris Saint-Germain uno.

La ricchezza ha cambiato però anche i calciatori, che sono diventati grandi aziende personali, quindi prima di tutto dediti a se stessi e ai propri interessi. È cambiato molto il calciatore del Duemila. Internet e i social lo hanno lavorato dentro, gli hanno dato quella mondanità frivola ma elegante che è spesso stata negata al grande uo- mo muscolare. Il calciatore oggi è un manager, ha capito che saper vivere, essere dentro il mondo, può valergli il benessere nella lunga seconda stagione della vita in cui il campo finisce. È qui che si allenta il bisogno di essere comunità, che arriva il freddo del manager.

Su tutto resta la dittatura del tempo. Difficile resistere a lungo, il calcio è come una partita, cambia continuame­nte. L’Italia ha vinto il mondiale e poco dopo è andata in crisi. La Spagna ha vinto tutto e poco dopo è andata in crisi. La Germania pure. Tutte le vincitrici dei tre mondiali che hanno preceduto quello di quest’anno sono in forte difficoltà, una dopo l’altra. La Francia è diversa perché può mescolare più etnie, rinnovarsi più in fretta. Ha un movimento intelligen­te, robusto e un po’ scolastico. Incassa la metà di quello italiano, cinque volte meno di quel- lo inglese. Ma i suoi fuoriclass­e arrivano da pianure lunghe come il vecchio colonialis­mo. L’Inghilterr­a resta un eccezional­e movimento, il più grande, ma paradossal­mente senza la forza della storia, lei che ha inventato il calcio. Forse gli inglesi amano più divertirsi che vincere, giocano quasi sempre un calcio spontaneo, duro e semplice. Amano ancora il principio del gioco, correre oltre il confine. Per que- sto sono felici allo stadio e non ci hanno ancora colonizzat­i tutti, nonostante siano immersi nei soldi. È questa felicità un po’ elitaria e banale che li appaga e li tiene lontani dalla storia che hanno fondato.

Il tempo peraltro dice che siamo vicini al Grande Cambiament­o. Nel 2024 credo proprio si arriverà a un ridimensio­namento dei tornei nazionali e alla creazione di un vero campionato e uro peo co n 2 2 - 2 4 s quadre, quindi fino a 46 partite che prenderebb­ero il posto dell’attuale Champions. Tutte le società più grosse spingono per questo (Real Madrid, Barcellona, Juventus, Bayern Monaco), la pol i t i c a fo r s e a n c h e . Di c o n o s i a u n prezzo da pagare alla modernità. Di sicuro servirà a pagare costi sempre più alti. E a sopravvive­re fino al prossimo rilancio.

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