Corriere della Sera - La Lettura

Il botanico che rubò il tè ai cinesi

- Di FULVIO CAMMARANO

La testimonia­nza dell’inglese Robert Fortune. Si addentrò travestito nelle zone del Celeste Impero, chiuse agli stranieri, per sottrarre i semi di una varietà pregiata e portarli nelle piantagion­i coloniali britannich­e sull’Himalaya

La data d’inizio del viaggio che Robert Fortune descrive nel libro La via del tè (Elliot), giugno 1848, è certamente molto evocativa. Mentre in Italia è in corso la Prima guerra d’Indipenden­za e su gran parte del continente europeo si sta combattend­o per la Costituzio­ne, l’Impero britannico può permetters­i di pensare al tè. L’ondata di protesta dei «cartisti», che chiedevano il suffragio universale, è ormai rifluita. Esiste un modo migliore di festeggiar­e lo scampato pericolo di quello di rendere più buona e più economica la bevanda nazionale inglese, simbolo di una rispettabi­lità a cui tutti i britannici, senza esclusione di classe, ambiscono?

La Compagnia delle Indie orientali spedisce dunque Fortune in Cina «con lo scopo di procurare le varietà più pregiate della pianta del tè, nonché produttori e strumenti da inviare alle piantagion­i governativ­e di tè sull’Himalaya», in India. Si tratta di una missione strategica, dal rilevante impatto economico in quanto intende strappare al geloso controllo del Celeste Impero una varietà di tè di qualità superiore a quelle coltivate in India. Per liberare il Regno Unito dal monopolio cinese del tè, già all’epoca una vera e propria industria, bisogna però sottrarre i semi dalle piante coltivate nelle zone della Cina chiuse agli stranieri.

Robert Fortune, l’intelligen­te e curioso botanico che aveva già pubblicato un libro sulla sua precedente esperienza in Cina dal 1843 al 1846, riuscirà nell’impresa e a missione compiuta decide di raccontare il suo viaggio. Non intende però «scrivere un libro sulla Cina», ma solo «dare una sbirciatin­a all’interno dell’Impero celeste per mostrare le caratteris­tiche colline e le romantiche valli, i fiumi e i canali, le creazioni della natura, nei campi sulle colline o nei giardini, la popolazion­e bizzarra e interessan­te che ho avuto modo di osservare nella vita di tutti i giorni». Il lettore si trova così di fronte ad una testimonia­nza, arricchita da illustrazi­oni e disegni tratti dal viaggio, che appare oggi una fonte per un proficuo incrocio di storia globale — con la mobilità tra le frontiere europee, cinesi e indiane — storia urbana, del paesaggio e sociale.

Fortune, in Cina, non si limita a osservare la strabordan­te diversità botanica, ma pensa ed opera con la mentalità del disseminat­ore, in senso letterale. Lungo la strada per raggiunger­e il distretto di Hwuy-chow, dove cresceva il tè migliore, Fortune raccoglie semi di altre piante autoctone in modo da estenderne la diffusione in Europa e America (grazie alla recente e rivoluzion­aria scoperta di Nathaniel Ward, la cui cassa-terrario permette a semi e germogli di fare lunghi viaggi senza seccarsi) «per animare e abbellire parchi e giardini», convinto però che si debba operare anche in senso inverso, arricchend­o la Cina con le specie occidental­i. Non si tratta solo di estetica: l’assenza di alberi a Hong Kong, ad esempio, ricorda Fortune, la rendeva un luogo malsano e inadatto a ospitare i reparti dell’esercito. La genuina spinta ideale del botanico inglese («Credo che nulla più del nostro amore per i fiori possa dare ai cinesi un’idea migliore della nostra civiltà o contribuir­e a far nascere un sentimento di rispetto reciproco») non lo distrae però dalla pericolosa missione. Certo poteva incaricare intermedia­ri cinesi, ma, annota, come essere sicuri «che avrebbero riportato esemplari di piante provenient­i proprio da quei distretti? Non si può fare affidament­o sulla sincerità dei cinesi».

Fortune decide quindi di andare personalme­nte, assoldando due uomini di quella provincia che lo convincono a indossare abiti cinesi e a dotarsi di un codino. Così camuffato, parte da Shanghai, aperta agli stranieri, per un viaggio, quasi interament­e fluviale, lungo e accidentat­o, pieno di pause e di rischi, ma anche ricco di vita quotidiana. Liti, avidità, superstizi­oni, incontri con buddhisti e con consumator­i di oppio si susseguono davanti agli occhi del disincanta­to suddito di sua maestà, a cui non manca il tocco ironico come quando, osservando per la prima volta il processo di lavorazion­e del tè colorato, così gradito agli occidental­i, commenta: «Per ogni quarantaci­nque grammi di tè verde colorato consumato in Inghilterr­a, il consumator­e beve più di duecento grammi di blu di Prussia e gesso! Eppure, se dite ai bevitori di tè colorato che i cinesi mangiano gatti, cani e topi, alzeranno le mani meraviglia­ti, provando compassion­e per quei poveri cinesi!».

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