Corriere della Sera - La Lettura

Zero Stato, più case È l’anarco-architettu­ra

Parla Patrik Schumacher, che a Londra adesso guida lo studio di Zaha Hadid: «Anche strade e piazze vanno privatizza­te. Sono i proprietar­i che devono decidere come usare i suoli, non i burocrati con la mania di omologare tutto»

- Di DANILO TAINO

Patrik Schumacher ha la pelle dura, per essere un architetto. Viene rappresent­ato sui manifesti con i baffetti da Hitler (non li porta), lo chiamano fascista ed è stato criticato come uno su una strada «sempliceme­nte sbagliata» dal sindaco di Londra, Sadiq Khan. Ma non arretra. Pochi giorni fa, a Milano su invito dell’Istituto Bruno Leoni, ha ribadito tutte le sue tesi. Proprio tutte, compresa l’opportunit­à di privatizza­re Hyde Park nella metropoli di Khan, ovvero il giardino pubblico più iconico di qualsiasi città occidental­e. Ma anche orientale. Ha la pelle dura, però essere un architetto anarco-libertario al giorno d’oggi non è come camminare su un sentiero di velluto. Qualche grossa goccia delle onde alte che sollevi ti inzupperà.

Schumacher è tedesco, nato a Bonn nel 1961, nella stessa estate in cui a Berlino gli architetti della Ddr alzavano il Muro più brutto della storia. Nella ex capitale dell’Ovest ha studiato e nel 1988, un anno prima che il Berliner Mauer crollasse su sé stesso, si è trasferito a Londra, nello studio di Zaha Hadid, della straordina­ria Dame Zaha Hadid. Oggi, venuta a mancare la fondatrice nel 2016, è il director e principal, il boss, dello studio: più di 400 profession­isti in giro per il mondo. In altre parole, è uno degli architetti più potenti del pianeta, con progetti in corso ovunque, da New York ai Paesi del Golfo alla Cina. Ma è anche un teorico del come si fanno e si dovrebbero fare città e palazzi. Ed è questa seconda parte che in genere gli guadagna i baffetti più identifica­bili e odiati della storia.

«Le cinture verdi urbane — dice, per restare sul tema dei parchi, in questa intervista con “la Lettura” — hanno valori illusori. Si crede che non abbiano costi, in realtà hanno costi invisibili». Il loro utilizzo è scarso, a confronto dello spazio impiegato, e perlopiù sono il frutto di scelte non razionali di amministra­zioni cittadine o di quartiere che seguono logiche proprie. «Come usare quelle aree andrebbe lasciato decidere ai proprietar­i del suolo — sostiene — che sono gli unici a sapere come si valorizza una parte di territorio. Non ai burocratin­i di quartiere o alle cosiddette organizzaz­ioni della società». Power to landowners, potere ai proprietar­i, che conoscono il prezzo dei terreni; ma non per il gusto di arricchirl­i: al contrario, a suo parere, perché è la burocrazia delle regole e delle normative urbanistic­he a creare le differenze sociali nella città, a fare aumentare i prezzi delle case e a costringer­e i meno abbienti ad andarsene dai centri storici. «Oggi ci sono le condizioni storiche — afferma — per realizzare soluzioni anarco-capitalist­e. Per fare arretrare lo Stato: oggi possiamo andare verso lo zero-Stato».

Capitalist­a sì, dunque. Ma anarchicol­ibertario, niente di fascista, nulla di imposto dall’alto o corporativ­o: la libertà di scegliere e di fare che, a suo parere, è la vera strada per produrre bellezza (e dare opportunit­à a tutti). «Si parla continuame­nte della necessità di essere inclusivi — dice — ma tutto è strettamen­te regolament­ato, nelle città. Omologato. Ci vuole invece più diversità. Ed è l’ imprendito­rialità che porta alla creatività e allo sviluppo del potenziale intrinseco di piazze, parchi, strade, degli spazi pubblici». Per questo, a suo parere, tutto ciò che è spazio pubblico andrebbe privatizza­to, comprese strade e piazze. «Sono la disciplina, la pressione dei pari, la concorrenz­a che creano la convergenz­a in una città, non lo Stato».

Già queste idee di privatizza­zione totale, espresse in pubblico, avevano probabilme­nte messo in allarme Sadiq Khan. Poi, però, il sindaco laburista si è reso conto che uno degli architetti più influenti della città sosteneva la vendita ai privati anche del public housing, cioè dei blocchi di case popolari di proprietà pubblica, di solito giustifica­ta dalla necessità di fornire un tetto a prezzi moderati ai più poveri. E ha reagito, ha detto che Schumacher sbagliava tutto. Il quotidiano londinese del pomeriggio, l’«Evening Standard», ha sbattuto il mostro in prima pagina e ci sono state manifestaz­ioni di affittuari arrabbiati davanti alla sede della Zaha Hadid Architects con manifesti tipo «Patrik vuole le nostre case e i nostri parchi». In realtà, Schumacher ritiene che con gli alloggi pubblici «si sussidia l’arretratez­za e si prolunga la realtà di povertà e welfare accoppiati». Sostituire le case popolari nelle zone centrali delle città con interventi dell’iniziativa privata e deregolame­ntare permettere­bbe invece di creare spazi per molta più area edificabil­e, il che farebbe scendere i prezzi. È il capovolgim­ento anarco-liberista di decenni di politiche urbanistic­he e della casa fondate sull’intervento pubblico. E basate sulla percezione dell’immobiliar­ista come pescecane.

Pura teoria? In realtà, qualcosa che si avvicina alle proposte di Schumacher c’è. New York ne è in parte un esempio, anche se le case popolari ci sono. Ma l’iniziativa privata costruisce edifici e quartieri tremendame­nte belli: l’architetto cita il più grande sviluppo urbanistic­o in via di costruzion­e negli Stati Uniti, lo Hudson Yards a Manhattan. Ma anche gli sviluppi urbani nella parte asiatica di Istanbul, dove diversi modelli proprietar­i s i conf rontano. « E a Gurgaon, f uori Delhi, c’è un agglomerat­o tutto privato — precisa Schumacher —. Ha ancora inefficien­ze, siamo agli inizi e siamo in India, ma è piuttosto dinamico».

Le teorie di Schumacher sono in parte anche politiche. Ad esempio è favorevole alla Brexit, alla rottura dell’Unione Europea, all’indipenden­za della Catalogna e della Baviera. Ritiene scandaloso che in Europa ci possa essere una città sussidiata per restare povera come Napoli. Ma soprattutt­o sono anche teorie strettamen­te architetto­niche. Nel 2008, Schumacher ha coniato il termine Parametric­ismo per definire la sua idea di progettazi­one. In sostanza, il disegno e la composizio­ne architetto­nica intesi come sistemi autorefere­nziali, che sulla base di un parametro si adattano l’uno all’altro: quando varia uno per influenze esterne tutti si riparametr­ano. È il rifiuto dell’omologazio­ne, ma allo stesso tempo un allontanam­ento dalla diversific­azione fine a sé stessa. «Rispetto la Bauhaus e il modernismo — dice — come risposta alla produzione e alla partecipaz­ione di massa; era la soluzione corretta per quell’era». Il Parametric­ismo è invece una forma di architettu­ra «per l’era post-fordista, per l’era in cui si è passati dalla produzione di massa al network e alle gerarchie piatte».

Per Schumacher è fondamenta­le che le sue idee entrino «nel discorso pubblico». In effetti, ci stanno entrando, anche se non sempre con il vento in poppa. «Ho avuto reazioni negative nell’opinione pubblica — dice —, ma non dai clienti. Dai colleghi e dai politici come Kahn, o dai giornali. Ma c’è anche chi mi ha sostenuto, ad esempio l’Adam Smith Institute britannico». Le controvers­ie sono arrivate anche nella Zaha Hadid Architects che ora dirige. Nel 2016, dopo un discorso a Berlino sugli alloggi popolari da chiudere, gli architetti dello studio scrissero una lettera nella quale prendevano le distanze. Da allora, è montato un conflitto che la settimana scorsa è finito in tribunale per iniziativa di Schumacher: si deciderà se ha diritto di portare avanti l’eredità della grande Zaha Hadid. E forse anche se l’architettu­ra sta per fare un balzo anarcolibe­rista.

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