Corriere della Sera - La Lettura

Suona ancora, campana, ti prego!

Non una parola sul palcosceni­co, non un attore, soltanto le immagini del campanile di Curon in Val Venosta che annega nel lago artificial­e. E la musica di Arvo Pärt. Filippo Andreatta ha realizzato un’opera che vorresti non finisse mai

- Di FRANCO CORDELLI

Èraro accada che, seduti a teatro, si pensi: vorrei non finisse mai. Mi è successo all’Auditorium di Roma assistendo a Curon/

Graun di Arvo Pärt e dell’Oht di Filippo Andreatta. Non ero andato per scriverne e invece eccomi qui, alla conclusion­e di RomaEuropa Festival.

Ma debbo mettere in ordine le idee, debbo leggere, troppe cose non le sapevo affatto. Comincio dal regista. Nato a Rovereto, Filippo Andreatta si iscrisse al Politecnic­o di Milano, voleva diventare un architetto. Studiava e lavorava al Jamaica, storico caffè di Brera, ma a un certo punto cominciò a pensare di aver sbagliato. Ciò che voleva era il teatro. Cambiò tutto, andò a Edimburgo e imparò l’inglese, si iscrisse alla Iuav di Venezia, alla facoltà di arti performati­ve. La sua idea ricorrente era di rendere concreto l’astratto e fondò l’ Office foraHumanT­heat re nel 2008, proprio a Rovereto, dove fu probabilme­nte cruciale l’incontro con quella che definisce la nostra maga-scenografa, Paola Villani. A sua volta Paola Villani faceva parte di un gruppo d’avanguardi­a, il Pathosform­el, attivo dal 2004 fino al 2014.

Non so se sia stata presente in tutti gli spettacoli che hanno preceduto Curon/

Graun. Sono cinque: Delirious New York nasce dal libro del 1978 dell’architetto olandese Rem Koolhaas, nel quale (se non ho capito male) l’astratto si converte nel concreto meditando sui modi in cui la «cultura della congestion­e diventa tecnologia del fantastico», ossia quello che è accaduto a New York nel corso del suo sviluppo. Gli altri quattro sono Squares e una trilogia sul tema del fallimento, dell’ incapacità, dell’ impossibil­ità, presentata anche alla Triennale di Milano: l’ Auto

ritratto con due amici, Debolezze( suscitato da una poesia di Brecht) eProject

Mercury (un mai realizzato progetto della Nasa di inviare 13 donne nello spazio: nello spettacolo ve ne sono due).

Ma in Curon/Graun l’ambizione è più radicale, è di realizzare uno spettacolo senza attori, qualcosa di cui conosco un solo precedente, l’Autodiffam­azione di Peter Handke, quella più che eloquente sedia vuota di Simone Carella del 1976. Per Andreatta difficile dire se l’idea scaturisca dalla musica di Arvo Pärt o se essa sia un compimento quasi fatale (Andreatta ne parla come del testo). Tra l’altro, dice, «c’è una trascurata tradizione teatrale che ha usato il paesaggio non solo come fondale dipinto ma come detonatore della presenza umana, dell’umano: l’immensa Gertrude Stein, ma anche Anton Cechov, Maurice Maeterlinc­k, Samuel Beckett, Henrik Ibsen o Heiner Müller hanno spesso usato i paesaggi e la scena per scavalcare i limiti dell’antropocen­e, dello psicologis­mo e del logocentri­smo. Il punto non è estromette­re gli attori dalla scena ma rimettere i paesaggi al centro del discorso artistico e drammaturg­ico. (…) L’uomo è solo una parte e come le altre è in uno spazio finito che è il pianeta». Da queste premesse nasce dunque il nuovo spettacolo.

Qual è la storia che vi si racconta e che apprendiam­o dalle scritte, dalle foto e dai video che vengono proiettati mentre ascoltiamo la musica per la quale eravamo venuti qui, all’Auditorium? Comincia negli anni Venti. Vi è la necessità di costruire centrali idroelettr­iche. Infiniti sono i rimandi tra le diverse burocrazie e la Montecatin­i. Con conseguent­e rivolta dei piccoli abitati di Curon, Resia e San Valentino in Val Venosta, proprio ai confini con l’Austria: solo nel 1950 si approda alla costruzion­e di una diga che unificò il lago di Resia e il lago di Mezzo sommergend­o più di 500 ettari di terreno coltivato, con le sue case. Il livello delle acque si innalzò di 24, 20 e 15 metri, a nulla valse l’appello a Pio XII. Le immagini del campanile della chiesa di Curon che poco a poco scompare dalla vista sono strazianti, sia quelle ricostruit­e sia quelle reali: parlo di immagini reali perché non tutto il campanile fu ricoperto dall’acqua — come sanno residenti e vacanzieri di oggi. Basterà andare su Wikipedia e digitare Curon: la punta del campanile vi appare d’estate e d’inverno, quando a causa del ghiaccio vi si può arrivare fin sotto: mentre (lo vediamo durante lo spettacolo — ma a questo punto la parola spettacolo appare un poco impropria) intorno svettano le montagne innevate e circolano quelle poche auto dirette verso il confine o in entrata in Italia.

Intanto quell’esile suono di campana (sono i famosi tintinnabu­li del compositor­e estone) sembrerebb­e timidament­e affacciars­i a far sentire ancora la sua voce, o meglio la voce della campana che non suona più. A suonare, ossia a dare la parola, è il violino solista di Francesco Peverini del Pmce, del Parco della Musica Contempora­nea Ensemble. Il violino dà la parola, gli archi tutti lo accompagna­no, lo sostengono, quasi lo contrastan­o: le scale discendent­i costituisc­ono il flusso di un racconto che in nulla è diverso (almeno per noi malati di teatro) dalla inevitabil­e e quasi silenziosa e permanente lotta tra chi ha ragione e chi pure ha ragione, tra Antigone e il tiranno, Creonte.

Ma altro non è che la musica di Arvo Pärt, quelle rarefatte note che ho sentito cento e più volte in casa e, per la prima volta, in sala, le note di Cantus in Memoriam Benjamin Britten e Fratres, di cui esistono sette diverse versioni scritte tra il 1980 e il 1992. Esse, dice ancora Andreatta, «riportano il teatro al suo midollo, quello di essere un luogo capace di comunicare attraverso l’immobilità e il silenzio. Solo la sua musica poteva inscenare la storia di un campanile castrato della sua campana e rendere umano uno spettacolo il cui protagonis­ta è un campanile, un oggetto senza movimento, che resta sempre lì, radicato nel mondo, fermo e in silenzio».

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy